Minori a mano armata e la giustizia che non ripara
“Minori a mano armata e la giustizia che non ripara” è un articolo della rubrica mensile Diari da Scampia – Racconti storie e sguardi dalla periferia, a cura di Emma Ferulano e Giuseppe Manzo.
Francesco Pio Maimone aveva solo 18 anni ed è stato ucciso da un colpo di pistola mentre era seduto con i suoi amici durante una lite che non lo riguardava. La stessa età di Ciro Colonna e due anni in più di Genny Cesarano. Anche Annalisa ha 18 anni ed è stata colpita da caschi e calcio d quattro ragazzi, provocandole un trauma cranico, solo per un cellulare. Fabio invece ha 32 anni, è un ingegnere e una sera ha voluto difendere il suo scooter ma si è ritrovato con proiettili nel bacino e nelle gambe, salvato solo grazie al personale sanitario dell’Ospedale del Mare.
Questi sono solo gli ultimi eclatanti fatti di cronaca che probabilmente saranno già vecchi perché altri ancora sono in corso. Minori e giovani pronti a picchiare, aggredire, rapinare e uccidere per il nulla segnano un passaggio fondamentale non solo a Napoli tra il prima e il dopo pandemia. L’analisi che spiega questo fenomeno arriva anche dalla relazione della Direzione investigativa antimafia che segue quella dei Carabinieri a giugno 2022.
“Un fenomeno in continua crescita in tutta la Regione e diffuso, soprattutto nella città di Napoli, riguarda la delinquenza minorile che ha fatto registrare, in quest’ultimo semestre, numerosi episodi di violenza con un significativo impatto negativo sulla percezione collettiva della sicurezza urbana. Il fenomeno – è scritto nella relazione della Dia – appare particolarmente preoccupante perché matura in difficili contesti ambientali, caratterizzati da diffusa illegalità, da elevata densità abitativa e forte degrado. Si tratta di condizioni che spingono le giovani generazioni alla ricerca di auto-affermazione esponendoli maggiormente al rischio attrattivo del circuito criminale camorrista. Nel semestre in esame si è anche assistito ad una elevata diffusione di comportamenti antisociali e illeciti aventi come protagonisti i minori, ovvero condotte criminali riconducibili ai fenomeni baby gang, bullismo e cyber bullismo, in cui il minore stesso emerge, contemporaneamente, quale autore e vittima del reato”.
A questo punto, però, c’è un passaggio importante e dirimente della relazione antimafia perché al netto del dibattito pubblico inchiodato sulle responsabilità delle fiction, ieri Gomorra e oggi Mare Fuori, c’è invece il nodo delle conseguenze post lockdown.
“Ciò impone la necessità di mantenere distinti i fenomeni conseguenti al diretto coinvolgimento dei minori nei contesti di criminalità organizzata da quelli che scaturiscono dalle condizioni di povertà educative dei contesti familiari. Se da un lato la devianza minorile partenopea affonda le sue radici nel passato va anche sottolineato come a Napoli, così come in tutta la Campania, la prolungata assenza dalle attività scolastiche a causa della pandemia ha, in un certo qual modo, favorito l’avvicinamento dei minorenni alle attività illegali ‘di strada’ avviandoli verso la “’carriera delinquenziale’. I fenomeni di devianza minorile a Napoli e nella Campania, tuttavia, non sono da considerarsi esclusivamente un prodotto della camorra ma da questa traggono comunque linfa ed ispirazione secondo modelli comportamentali tipici di emulazione e identificazione”.
Emulazione e identificazione nel vuoto, nell’assenza e nella mancanza di riferimenti. Questo, parafrasando il titolo della fiction di successo, è il “mare dentro” di questa città tinta di azzurro per gioia e anche per disperazione. Chi ha fatto l’educatore a Napoli negli ultimi 20 anni conosce benissimo il progressivo indebolimento sociale, familiare e inclusivo dalla prima infanzia all’adolescenza è stato occupato da altro. E conosce benissimo dalla faida di Scampia alla stagione dei baby boss come Sibillo che quel modello è l’unica opzione culturale capace di fornire reali strumenti di potere in certi “falansteri” criminali da Ponticelli a Soccavo. Questa opzione è la cultura del capo, del boss, di uno pseudo bandito da temere e rispettare per contendersi vecchi palazzoni post terremoto in quartieri de-industrializzati e inquinati. Si è assistito in questo ventennio al graduale abbandono istituzionale di interi quartieri a Napoli e non solo. È avvenuta una sorta di silente delega a organizzazioni sociali e del terzo settore che sono rimaste sul campo sole e spesso isolate. A Scampia la rete associativa ha costituito un modello forse unico di comunità accoglienze e capace di mettere in campo azioni nel tempo. Ovviamente non basta.
Nei mesi scorsi ci ha provato la nuova Diocesi guidata da don Mimmo Battaglia a rilanciare il concetto di rete con i Patti educativi. A oltre sei mesi lo stesso coordinatore di questo progetto don Gennaro Pagano ha affermato a mezzo stampa che il soggetto assente è l’istituzione, a ogni livello.
Quali sono esattamente le politiche giovanili a Napoli e nei quartieri a rischio? Chi e come ha previsto l’investimento dei fondi Pnrr sulla devianza e sulla dispersione scolastica-sociale dei minori? Quanto sono coinvolti educatori e organizzazioni di terzo settore in quella che dovrebbe essere la cosiddetta co-progettazione?
Servono risposte a queste domande, alle torsioni sociali nell’epoca digitale. Liberare la conoscenza è il titolo del Manifesto lanciato dal Forum Disuguaglianze Diversità perché troppe persone e tanti bambini sono tagliati fuori dai sapere determinando il primo passaggio dell’ingiustizia sociale. Se le risposte non arrivano si creano i vuoti, a Napoli come a Milano. E nelle società i vuoti qualcuno li riempie sempre, soprattutto sul piano dei valori dell’esistenza: ecco l’emulazione e l’identificazione con una pistola nella cinta pronti a sparare a chi ti sporca le scarpe, a chi non ti consegna uno scooter o semplicemente per mettere fine alla negazione dell’esistente che ha prodotto quella stessa violenza.
Negli Usa non si bussa alla porta sbagliata
Il 13 aprile, nel Missouri, un ragazzino di 16 anni va a prendere i fratellini a casa di amici, sbaglia casa e viene sparato in testa dal vecchio a cui aveva bussato accidentalmente. È molto grave, ma per miracolo è sopravvissuto e lotta per risvegliarsi. Il vecchio, bianco, 85 anni, in tempi incredibilmente rapidi è già stato incriminato per il reato con aggravante razzista. Ralph è stato sparato probabilmente perché nero, sicuramente perché l’uomo si è sentito minacciato nella sua proprietà privata. Così come si è sentito minacciato un altro anziano proprietario di una casa nello stato di New York due giorni dopo, sparando e questa volta uccidendo Kaylin, una giovane bianca di 20 anni, che pure aveva sbagliato strada. Le scorciatoie cognitive dei due uomini, il pregiudizio e probabilmente lo stato di paura che attanaglia le loro vite, li ha portati a compiere lo stesso atto disumano, dove la componente discriminatoria e l’equazione giovane sconosciuto uguale pericolo hanno avuto un peso determinante. L’opinione pubblica reagisce con una indignazione di massa, anche perché i due giovani non erano dei criminali come i due anziani signori avevano supposto (se lo fossero stati avrebbe fatto qualche differenza di fronte alla enormità della punizione inflitta?), la legge in qualche modo potrebbe anche tutelarli perché in nome della legittima difesa, all’interno della propria proprietà, si può giustificare qualsiasi atto.
La diffusione incontrollata delle armi da fuoco, altro grande tema oggetto di più accurati dibattiti che non sembrano però scardinare la facilità con cui è possibile acquistarle, affonda le sue radici negli anni ’60 e ’70 quando emerge nelle comunità nere la necessità di difendersi in qualche modo dalla brutalità della polizia che senza controllo miete vittime – giovani in particolare – nei loro quartieri, a partire da una interpretazione, da parte dei più radicali, del Secondo emendamento come garanzia del diritto dei cittadini di possedere e portare armi, e di provvedere all’autodifesa in una società conflittuale. Il programma ufficiale del Black Panther Party dice: “Il Secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti dà il diritto di portare armi. Crediamo perciò che tutto il popolo nero dovrebbe armarsi per auto-difesa”. Il paradosso finale, è che dagli anni Settanta in poi l’egemonia su questo discorso viene conquistata dai movimenti conservatori di destra e dalle lobby delle armi. Il resto è cronaca, dalle sparatorie nelle scuole alle sparatorie di giustizieri privati. I giovani, neri bianchi latini e asiatici, si trovano intrappolati in questo gioco in cui possono essere apparentemente solo o vittime o carnefici, ma invece per fortuna le sfumature sono infinite (e dovremmo sempre ricordarlo.)
Passeggio per le strade di un quartiere medio nei sobborghi di New York, accompagno i miei nipoti italo-uruguayos-americani a scuola e non posso fare a meno di chiedermi come fanno a non stare in ansia visto che tutti i giorni, attraverso prove, esercitazioni, falsi allarmi, simulazioni di fuga, gli viene ricordato che il nemico, che come raccontano i casi cronaca spesso si nasconde proprio tra uno di loro, è sempre in agguato, il pericolo è dietro l’angolo e che può accadere di tutto nei loro edifici scolastici. Per fortuna, non ci pensano troppo, pensano a vivere. Il paese in cui in alcune scuole di quartieri ad alta densità nera giganteggia la frase “Our lives matter” – le nostre vite contano – e contemporaneamente per entrare i giovani devono farsi identificare o passare sotto un metal detector per controllare che non vengano introdotte armi, nella narrazione dei media sembra lontanissimo dall’Italia, e non solo geograficamente.
Ma al contrario, anche in Italia, e nel sud in particolare, i paragoni con l’America iniziano a fioccare, negli studi, nelle analisi, nei dibattiti, per cercare di spiegare derive e degenerazioni che spaventano e che non trovano ancora una vera collocazione nella ossessiva catalogazione che gli adulti fanno dei giovani. Per dirla con il sociologo Stefano Laffi nell’importante libro La congiura contro i giovani: Il problema non sono i giovani, ma gli adulti. I giovani sono l’alibi di adulti in crisi, disorientati di fronte alla perdita di controllo del mondo che li circonda, increduli di fronte agli effetti di una società dei consumi da loro edificata, o meno innocentemente votati loro a “consumare” i giovani nei propri ambiti professionali, nell’universo delle proprie fantasie anti-età o ansie di ruolo.
La giustizia ripara?
Durante un incontro nazionale di coordinamento e confronto tra alcune regioni italiane che portano avanti un progetto della durata di 40 mesi che ha come focus la devianza minorile, tra cui Napoli e la Campania, nella costruzione della carta d’identità di casi tipo di giovani di tre fasce d’età dai 10 ai 21 anni, nessuno delle educatrici, operatori, coordinatrici presenti ha mai nominato la parola reato, devianza, delinquenza. Per tutte quelle persone impegnate a vario titolo e da tempo nel lavoro con giovani inseriti nel circuito penale, il fatto di aver commesso reati, evidentemente non rappresenta un tratto distintivo dei ragazzi e delle ragazze con cui hanno a che fare. I profili che sono stati abbozzati in poche parole sono infatti quelli di giovani normali che hanno bisogni, paure, aspirazioni, motivazioni profonde o sopite, espressioni tipiche, passioni, debolezze, forze, sogni. Sono venuti fuori ritratti di giovani muti, timidi, che non sanno parlare molto bene ma sono espressivi e con uno sguardo ti dicono tutto, giovani che cercano di avere in qualche modo attenzione, giovani che hanno paura di non farcela nella vita e per questo si sottraggono da qualunque tipo di sfida, impegno, compito, giovani che non riescono a trovare riferimenti validi e hanno difficoltà a concentrarsi. Giovani che nutrono ancora la speranza di vivere bene, a volte anche al di sopra di ogni possibilità, anche se la vita non gli ha riservato molto dalla nascita. Giovani disposti a tutto per non sentirsi più a disagio, esclusi, discriminati e per entrare a pieno titolo in un conformismo richiesto da una intera società che sempre meno sopporta le deviazioni e i fallimenti. Giovani che magari sono già pieni di troppe responsabilità per la loro età e che cercano vie di fuga.
Sono molteplici le riflessioni che si agitano in chi da anni si trova in prossimità di questi giovani che per un motivo o per un altro si sono trovati a commettere reati per i quali ciascuno sta scontando la propria pena. Sono ragionamenti tutti aperti, che si originano dalle pratiche ma che avrebbero bisogno di trovare più spazio e tempo per dare chiavi di lettura oneste e lucide, che possano servire a comprendere e affrontare alla radice situazioni che in alcuni casi sono così stratificate da sembrare impossibili da scalfire, facendo apparire il lavoro dell’educatore, del servizio sociale, dell’operatore culturale, una mera riduzione del danno, un salvagente provvisorio in balia di onde molto tempestose. Sembra cioè che il massimo che si possa ottenere e offrire a questi giovani è una buona esperienza di vita provvisoria e limitata alle ore in cui ci si frequenta nel contesto educativo, se tutto va bene, affidandosi alla profondità o meno delle relazioni che si riescono a costruire e rinsaldare e alla capacità di “superare la soglia” – puntare in alto, insistere anche nei casi che sembrano più disperati, scuotere il più possibile le coscienze e il torpore – che non è un dono nè una prerogativa di tutti. Ma attorno, cosa resta e quali sono le motivazioni e gli obiettivi di vita che spingono ad agire? Accomunati spesso da un destino di esclusione che li accompagna da generazioni, la libertà per alcuni di loro non significa avere il diritto e l’accesso alla bellezza, alla cultura, alla conoscenza, e questo accadeva anche ai loro genitori e ai loro nonni, e forse anche più indietro. Non significa essere accolti a scuola, fare percorsi di alfabetizzazione e formazione che portano ad accedere ad un mondo del lavoro che funzioni e sia gratificante, dal punto di vista economico ed umano. Non significa avere potere d’acquisto sufficiente per non sentirsi dei poveracci in un mondo che ti vuole solo consumista e possibilmente alla moda. Non significa poter garantire ai propri figli che il loro futuro sarà migliore né ai propri genitori di poter uscire dalla povertà, materiale, educativa, complessiva. Significa continuare a galleggiare e sopravvivere in qualche modo, appellandosi anche a vie di fughe spericolate.
Sorge spontanea una domanda: si può provare che la giustizia è classista? Forse è una domanda banale, ma sarebbe interessante ascoltare alcune risposte.
Emerge chiara la responsabilità di un intero sistema politico e istituzionale che non riesce a essere un argine e un riparo per tutti, e che sempre più usa il terzo settore come parafulmine o anche come balia, pur tenendoci a mantenere e sottolineare la distanza tra i compiti e i ruoli. Emerge la necessità di una presa di responsabilità collettiva degli adulti, che dovrebbero insistere nella creazione di relazioni, offrire opportunità e costruire percorsi su misura, dopo aver dedicato il giusto tempo all’ascolto e alla comprensione di quanto accade, anche a livello profondo, ricreare contesti accogliente, soprattutto laddove mancano riferimenti ma anche rinforzare quelli esistenti. Emerge la necessità di creare alleanze su più livelli istituzionali, che ciascuno sappia cosa fa l’altro e ne condivida una visione comune.
Quando cambia la prospettiva
Recentemente sul social network Tik Tok, dove centinaia di migliaia di persone, giovani prevalentemente, anche quelli che non sanno nemmeno leggere e scrivere, trascorrono le proprie giornate e riversano racconti e sentimenti, a ben leggere anche i più profondi, è circolato un video nella metropolitana di Milano di qualcuno che ha catturato il momento in cui una ragazza, probabilmente scoperta nell’atto di rubare, dichiara davanti a tutti che sì, lei ruba, la cosa è risaputa e normale, d’altra parte quale altra scelta avrebbe. Lo dice con un tono quasi arrogante che la fa apparire fiera della cosa, ma che forse le è servito per prendere il coraggio per fare un’ammissione pubblica del genere. Il video è diventato virale, ma non solo quello. Si sono susseguiti video in cui in tutta Italia, ogni occasione – al supermercato, per strada, dal parrucchiere, in un negozio di giocattoli – è buona per scimmiottare la ragazza, e ripetere ossessivamente la sua frase, storpiando e prendendo in giro l’accento slavo della ignara protagonista. La ragazza è di origini rom ma parla perfettamente italiano, incinta, forse non è nemmeno maggiorenne, e fa la borseggiatrice secondo quanto lei stessa dichiara. Dopo poco, viene invitata con la sua pancia sempre più grande a una serie di talk show su emittenti nazionali, in prima serata, in cui conduttori e giornalisti cercano di farle dire la cosa giusta, del tipo mi scuso per quanto ho detto, se qualcuno mi propone un lavoro io lo vado a fare. La storia va avanti da qualche settimana, e l’accostamento discriminatorio rom – o piuttosto zingara – incinta, ladra, sfacciata, ignorante, in definitiva irrecuperabile, si afferma ancora di più nel discorso pubblico, decenni di pratiche e riflessioni per ribaltare lo stereotipo vengono cancellati con un click, e diventa, cosa forse anche più pericolosa, una questione di autonarrazione e autorappresentazione, ripresa anche da altre e altri che nella vita si sono effettivamente ritrovati a rubare o a fare altri illeciti – legati spessissimo a questioni di sopravvivenza. Ma trovarsi alla ribalta in televisione, “diventare famosa” come i ragazzi ci hanno detto con una punta di ironia, piuttosto che andare in galera, con magari qualcuno che si prende a cuore la tua singola questione e che offra qualcosa di vantaggioso, cambia un po’ la prospettiva.