La difesa dell’ambiente passa per un’altra idea di città
“La difesa dell’ambiente passa per un’altra idea di città” è un articolo della rubrica mensile Diari da Scampia – Racconti storie e sguardi dalla periferia, a cura di Emma Ferulano e Giuseppe Manzo.
C’era una volta, nei primi anni del 2000, una baracca che si chiamava Scola Jungla, battezzata così dai bambini e dalle bambine che vivevano nelle baracchine tutte attorno: finalmente una scuola, ma non esattamente una scuola, a portata di mano e di piedi, in cui si può imparare a leggere e scrivere a contare, ma si può anche giocare, disegnare, urlare, correre e saltare.
La Scola Jungla era costruita con materiali di risulta e riciclo e aveva avuto degli architetti e progettisti speciali, che sapevano costruire le case su tutte le superfici, in tutti a paesi, a tutte le latitudini, con un disegno soprattutto mentale più che grafico e con l’aiuto di manovali un po’ improvvisati ma molto volenterosi. Ma la Scola Jungla non era solo un posto dedicato alle bambine e ai bambini. Era aperta anche agli adulti, sia abitanti del campo e sia ospiti venuti da fuori, che seduti in cerchio, al freddo, al caldo, di notte e di giorno, si dilungavano in discussioni, opinioni, considerazioni, visioni. Parole come partecipazione, cittadinanza attiva, riappropriazione degli spazi pubblici, diritto all’abitare, brillavano come lucciole nell’oscurità, anche nelle stagioni più buie dei grigi inverni delle politiche pubbliche e si alternavano ai laboratori di carnevale, doposcuola, teatro, cucina.
La sua posizione “ai margini dei margini” in una zona al confine tra la città e la sua provincia, a metà tra l’urbanizzazione e il residuo ampio di una campagna che si intravede e intuisce fertile e fruttuosa, la sua capacità di generare così tanti immaginari e di accogliere così tante persone sulle sue traballanti mattonelle, le hanno fatto meritare il soprannome di avamposto culturale.
Un luogo che non ti aspetti insomma in un campo rom abusivo, considerato poco più di una discarica da quasi tutti, uno spazio vitale da elogio del margine nostrano.
Così come non ti aspetti che tra quelle persone sedute nelle assemblee della Scola Jungla – pure lei abusiva – siano passati prefetti, viceprefetti, giudici, assistenti sociali, scrittori, artisti, teatranti, tutti insieme mischiati rom e gagiò, e con molti bambini tra i piedi, per ascoltare con orecchie aperte, vedere con occhi curiosi e anche assaggiare con bocche affamate le buone torte e le molte storie che parlano di oppressioni, condizioni di vita durissime e diritti negati.
Ma anche di possibilità di incontro, emancipazione, riscatto e sperimentazioni di convivenza etica, sostenibile.
Questa lunghissima storia sembra appartenere a un passato mitico, eppure è accaduta solo dieci o quindici anni fa, e nel tempo abbiamo imparato a leggerla come un processo di comunità in cui si provava – e si prova tuttora, anche se non più nella Scola Jungla – a gettare le basi per una proposta politica, sociale, pedagogica e anche economica: una sorta di prospettiva della sussistenza – per dirla con le parole di alcune studiose dall’approccio eco femminista.
E di approccio ecologico, o meglio di ecologia popolare applicata si può parlare per tutti gli interventi e le lotte che, come associazione e come rete territoriale – comitato spazio pubblico, comitato abitare cupa perillo – abbiamo portato avanti, a partire dal diritto negato all’abitare, alle forme discriminatorie che le politiche pubbliche hanno concepito (o non concepito) per gli italiani dei rioni popolari e per i rom a partire dagli anni ’90, fino alla stessa immagine di ghetto che ne consegue e che ha pesantissime ripercussioni sulla vita di quei cittadini ai margini.
Le denunce per gli sversamenti illeciti di materiali altamente tossici, l’eterna questione segnalata per decenni alle autorità del mancato prelievo dei rifiuti ordinari da parte dell’ASIA in certe zone del campo considerate appunto abusive – sebbene abitate da centinaia di persone – e pertanto fuori dal raggio d’azione degli autocompattatori, la piaga dei roghi tossici che in Campania ha avuto un impatto devastante sull’incidenza tumorale e che in alcune zone vengono sovrapposti e interamente addebitati alla presenza dei rom dei campi dell’intera area metropolitana ma di cui loro sono le prime vittime, le decine di incendi dolosi e strumentali in tutte le periferie in cui insistono o insistevano gli insediamenti – dal 1999 ad oggi, la storia dei campi rom è una storia di fuochi appiccati e di cause e responsabilità mai accertate – le mancate bonifiche in seguito a questi incendi nonostante le promesse e i fondi stanziati. Accanto a questo, le incessanti azioni di recupero, ripristino, valorizzazione, ricostruzione e il tentativo di spingersi sempre un po’ oltre, non limitarsi alla resistenza, sopravvivenza e alla guarigione delle ferite, ma ribaltando il punto di vista e lavorando per un presente e un futuro migliori.
E oggi, a che stiamo?
La situazione è in una fase di stallo, altamente nocivo. La questione abitativa dei rom sembra essere completamente fuori dalle agende istituzionali locali, d’altronde i fondi del PNRR che inizialmente prevedevano investimenti nelle periferie di 14 città metropolitane, tra cui Napoli, poi bloccati dal Governo, e infine riconfermati dalla cabina di regia a Palazzo Chigi appena sei giorni fa, da impiegare per “la realizzazione di interventi per migliorare le aree urbane degradate” e “trasformare territori metropolitani vulnerabili in territori efficienti, sostenibili e produttivi”, nella loro declinazione napoletana non contemplano in nessun punto una riqualifica delle aree dei campi e la ricollocazione delle poche centinaia di rom che vi abitano.
Se disegniamo una mappa in cui fare emergere con dei colori rappresentativi i campi e gli insediamenti, esistenti o passati, comunali e abusivi, abitati prevalentemente dalle comunità rom, alcune centinaia di persone, i colori prevalenti sarebbero il marrone del fango, il grigio delle lamiere e della cenere, il nero della terra bruciata.
Eppure, sia fuori che dentro la Scola Jungla, abbiamo visto passare una marea di colori con infinite sfumature che si sono inseguiti, alternati, mischiati, nella bellezza delle relazioni, delle storie raccontate e di quelle immaginate, dei mondi desiderati e qualche volta sfiorati.
A Napoli la questione ambientale fa spesso rima con le periferie e l’emarginazione sociale, a partire da quella di Scampia fino ad arrivare a Napoli est. Gli indicatori prodotti da Isde Medici per l’ambiente negli ultimi dieci anni per l’amministrazione comunale dimostrano come le prime tre aree a maggiore rischio di impatto ambientale siano le periferie ex industriali di Bagnoli e della sesta Municipalità insieme a quella di Napoli Nord. Proprio nell’area orientale i cittadini chiedono (invano) le bonifiche di intere aree che sono un rischio costante per la salute. Dalla linea di costa più inquinata della Campania all’area Sin dove la multinazionale Q8 è stata messa sotto inchiesta per smaltimento di rifiuti tossici, i cittadini combattono anche contro i roghi come quello dell’ex campo rom di via Mastellone a Barra.
Insediamenti o ex campi i ghetti sono spesso il terminale di sversamenti illeciti di rifiuti industriali in tutta l’area metropolitana che condannano ai rischi per la salute i cittadini, incluse le comunità rom: Scampia, Giugliano, Caivano e la zona orientale appunto. Questa condizione è il frutto di un processo ventennale dove ai margini dell’emergenza rifiuti prima e della gestione urbanistica dopo la cintura periferica e metropolitana è diventata depositaria delle torsioni sociali e ambientali. Nel 2008 fu un incendio di un intero campo a Ponticelli a cacciare i rom, quindici anni dopo un incendio a un altro campo ha creato un’ennesima bomba ecologica. Il fenomeno dei roghi ha avuto un ridimensionamento parziale grazie all’azione dell’esercito tra sequestri e denunce ma non ferma la filiera della produzione-sversamento illecito di quell’indotto di economia formale e informale che punta ad abbattere i costi per il proprio profitto.
La bonifica di un territorio è il punto cruciale per determinare il destino dello stesso. Bagnoli, ad esempio, è inchiodata da trenta anni sul nodo delle bonifiche dei terreni e del litorale. L’area vasta del comune di Giugliano è un altro grande buco nero di mancati interventi e di presenza inquinante che blocca qualsiasi idea di futuro sostenibile per l’area metropolitana tra Napoli e Caserta. Se l’intero Paese è lontano dall’agenda 2030 sulle strategie di sostenibilità e i fondi Pnnr non decollano sui progetti ambiente e salute, ci sono progetti in cui sono protagoniste le scelte dell’amministrazione comunale, quella più prossima. Ad esempio, la vicenda dei box privati interrati nella collina del Vomero ci parla di una visione della città sulle questioni legate alla mobilità, ai trasporti e all’impatto ambientale.
Non è un caso che la sensibilità sul tema abbia prima prodotto la Rete No Box che ha aperto questa vertenza per fermare il progetto e non solo. Da questa rete si è innescato un processo che ha generato una rete cittadina, la più larga in questo momento sul fronte della cittadinanza attiva e non è un caso che riguardi proprio l’impatto ambientale a Napoli. I comitati delle periferie, della mobilità sostenibile, delle spiagge pulite e libere si sono coordinati per una mobilitazione che parte da una domanda precisa: qual è l’idea di città per i prossimi venti anni? Nel Piano regolatore del 1999 con Bassolino sindaco c’era una idea chiara sull’urbanistica e sul decentramento, piano poi smontato nel corso del decennio successivo. Oggi bisogna capire da chi amministra quali sono le priorità dopo che per mesi il dibattito è stato inchiodato dalla spinta per le nuove cubature di Porta est tra la stazione e il Centro direzionale.
Non ci sono al momento le visioni e le proposte per legare la questione ambientale con quella sociale per evitare il rischio delle fiammate ostili contro i rom, ad esempio, a distanza di quindici anni dal rogo di Ponticelli. A Caivano proprio una delle comunità più pacifiche e incluse subisce diverse forme di intimidazioni come gli spari all’ingresso del campo oltre al continuo sversamento di materiali e rifiuti speciali. A Barra a distanza di un anno dalla fuga della comunità dal campo di via Mastellone per un immenso rogo che per giorni ha messo a dura prova la salubrità dell’aria quei terreni sprigionano ancora geyser inquinanti e nocivi per la salute pubblica.
Con o senza le persone rom la ghettizzazione delle aree ai margini del luna park turistico vivono una grande crisi sociale che diventa anche ambientale: avere un progetto di cambiamento urbano per queste periferie e per l’area metropolitana significa anche mettere al centro l’impatto ambientale nella nostra vita di tutti i giorni.