Brucia la terra in questa estate 2021, bruciano i rifiuti, le piante, gli animali, i pascoli, gli oggetti, le case, i sogni. Una linea di fuoco attraversa il pianeta e lo illumina di una luce abbagliante e feroce, disgraziatamente spettacolare.
Bruciano i luoghi apparentemente più isolati, le provincie remote, le montagne, le pianure, i boschi. Il punto di osservazione dei nostri sguardi è spesso lontano e in lontananza guardiamo increduli e impotenti, nel migliore dei casi arrabbiati, ma spesso assuefatti, non ci rendiamo veramente conto dell’impatto devastante che questo ardere ha e avrà sulle vite nostre, oggi, adesso, e delle future generazioni.
La consapevolezza, forse, arriva quando iniziamo a respirare i fumi e quando a bruciare sono territori vicini e le persone coinvolte e stravolte sono conosciute.
Bruciano i campi
Bruciano anche i campi in cui vivono da decenni le comunità rom di Napoli e della sua area metropolitana. Bruciano i cumuli di immondizia, il terreno e le baracche, l’aria è irrespirabile, le comunità perdono tutto o quasi, spesso quel tutto era veramente poco, devono spostarsi o trovare un rapido rimedio, almeno per i bambini e le donne incinta, che rappresentano il bene più prezioso, il loro futuro.
A Scampia
A Scampia, area nord di Napoli, il 6 agosto, un incendio, probabilmente originato da un cavo elettrico, si diffonde rapidamente dai cumuli di immondizia che da tempo hanno ormai invaso l’area di via Cupa Perillo e che al termine di un rogo distrugge cinque baracche. Sono passati esattamente quattro anni dal grande incendio che ha spazzato via circa la metà delle baracche, causando una vera e propria diaspora di oltre trecento persone che ha di fatto dimezzato uno dei nuclei abitativi di rom più antichi in città, presente dagli anni ’70.
L’attesa di una bonifica
Il terreno in cui si è consumato il rogo è ancora oggi in attesa di una bonifica. Una bonifica che pure era stata garantita dalle istituzioni. Tra queste il Comune di Napoli in testa con grande enfasi e retorica ambientalista, e con un finanziamento pronto che la Regione Campania tiene da qualche parte nel suo borsellino. D’altra parte, non sono mai stati spesi neppure i fondi stanziati dall’UE il 17 dicembre 2009, con risorse Por-Fesr 2007/13, di 7.016.000 euro. Parliamo di fondi destinati alle comunità rom proprio per la riqualifica abitativa in quell’area. Fondi perduti a causa di inadempimenti burocratici, lentezze amministrative e conflitti sopiti tra il Comune e la Regione Campania, attraverso la quale passano, con molti ostacoli, i fondi europei.
Ora come allora, l’incendio ha lasciato intere famiglie senza casa e senza alternative. La più valida era stata l’accoglienza temporanea nell’Auditorium di Scampia per circa sessanta persone che vi hanno vissuto per circa due anni. La risposta istituzionale è tardiva e insufficiente, ma con un po’ di fortuna e buona volontà una soluzione si trova sempre.
Le istituzioni sono fiduciose…
Siamo sicuri che in fondo le istituzioni confidano nella notoria capacità di arrangiarsi dei rom, superiore a quella altrettanto nota dei napoletani. Confidano anche nel fatto che esiste un “esercito” di volontari. Una rete che tra associazioni, enti ecclesiastici, singoli cittadini e reti informali di varia natura, spesso accorre in soccorso delle famiglie in difficoltà e trovano più velocemente cerotti riparatori e mezze soluzioni.
Gli incendi, un feroce filo conduttore
Nella storia delle comunità rom, gli incendi sono un feroce filo conduttore, un evento che sembra inevitabile e che prima o poi capita. Il fuoco colpisce da decenni generazioni di persone che sono testimoni e protagonisti e vedono le proprie case bruciare. Anche più volte nel corso della vita. I bambini di Cupa Perillo dai 5 anni in su, hanno già visto e vissuto sulla propria pelle due grossi incendi. Gli adulti invece, almeno tre se consideriamo l’incendio del 1999 in via Zuccarini nei campi informali che sorgevano sotto la metropolitana di Scampia, con il quale si è inaugurata la stagione dei campi comunali sulla circumvallazione tra Scampia e Melito – che ancora esistono – e il trasferimento di circa mille persone. A volte sono incendi casuali che si propagano a causa delle precarie condizioni. Ad esempio scintille di cavi elettrici volanti o vecchie stufe che possono diventare rapidamente una vampata trovando veicolo nelle sempiterne semidiscariche che spesso costeggiano i campi, altro emblema della incuria istituzionale.
A volte il fuoco risolve velocemente situazioni ingarbugliate in cui si mischiano gli interessi della politica e/o di privati sui terreni che disgraziatamente i rom hanno scelto di occupare, accompagnato anche da veleno razzista rinfocolato ad arte dall’espediente di turno che serve a motivare in qualche modo i roghi e la conseguente espulsione dei rom dai quartieri.
A Ponticelli
Il caso degli incendi di Ponticelli del 2008 è forse quello più eclatante. Esiste un po’ di letteratura in materia, prevalentemente articoli e inchieste, alla quale rimandiamo per chi volesse approfondire.
A volte, le due cose coincidono: grazie a un incidente fortuito si possono accelerare le pratiche per un eventuale sgombero di un’area su cui convergono interessi infrastrutturali ma spesso in concomitanza con periodi elettorali. E’ il caso dell’incendio attuale di Scampia, su cui sono piombati i consiglieri municipaliper portare alla ribalta l’annosa questione dell’apertura delle rampe dell’asse mediano, proponendo e realizzando censimenti e spostamenti chissà dove senza tenere minimamente in conto la storicità della presenza e delle relazioni dei rom in quel quartiere.
In tutti i casi, sarebbe inconcepibile in qualunque altro contesto abitativo e con qualunque altro sistema di governo pubblico in una città occidentale ed europea esporre i propri cittadini ai rischi legati all’esplosione di incendi e consentire che il proprio territorio venga martoriato in tal modo e ripetutamente, lasciando danni permamenti per l’ecosistema. Per i rom, com’è noto, si fa sempre qualche eccezione, relegati nei margini territoriali e nelle ristrette visioni culturali dei nostri amministratori che non gli conferiscono nè una piena cittadinanza e nè tantomeno la possibilità di godere dei pieni diritti civili. E inoltre, la colpa del danno ambientale è facile farla ricadere proprio su di loro, che al contrario sono le prime vittime. La vecchia logica del capro espiatorio sul quale far ricadere i mali del mondo, che in certe zone come Scampia coinvolge anche le comunità non rom, funziona sempre.
A Barra
A Barra, periferia est di Napoli, il 10 agosto, scoppia un incendio che nella notte costringe 136 persone a scappare. In quel territorio vivono dal 2007 cinquanta famiglie – ma quella notte non tutte erano presenti – provenienti dalla Romania. Il livello di radicamento nel territorio è reso evidente da molti elementi e da lunghe consuetudini, così come testimoniato dalla comunità rom stessa, dalle associazioni locali e dagli abitanti dell’area. La frequenza scolastica assidua, le relazioni con il quartiere, il tentativo di inserirsi in un circuito economico – sebbene ancora legato prevalentemente ad attività informali – per garantire la sopravvivenza di interi nuclei familiari e forse immaginare qualche prospettiva diversa dalla vita in un campo “abusivo”, che tuttavia è un dato di fatto della geografia urbana e umana della periferia est di Napoli e non solo. Ricordi, racconti, memorie, foto, piccoli atti di vita quotidiana e di quotidiana resistenza legati a quel territorio, tutto velocemente spazzato via da un incendio. Un gruppo di venti famiglie sono state trasferite alla ex scuola Deledda a Soccavo, nella periferia ovest, le altre si sono disperse in città in altri insediamenti di fortuna che pure persistono da anni.
La Deledda
La ex scuola Deledda di Soccavo, fiore all’occhiello delle politiche abitative comunali, è descritta così sul sito del Comune di Napoli: “Il CCST ex-scuola Deledda, sito nel quartiere Soccavo e nato nel 2005 come Centro di Prima Accoglienza nel contesto dell’ondata migratoria dei Rom rumeni, si è nel tempo trasformato in Centro di Accoglienza e punto di riferimento per la progettazione rivolta ai Rom rumeni”. Tradotto, significa che circa cento persone abitano da almeno un decennio nelle aule di una scuola in una struttura gestita dall’Ufficio rom e patti di cittadinanza del Comune e dagli enti del terzo settore di turno, come se fosse un carcere, o un ospedale, o appunto un centro di accoglienza, con orari di apertura e chiusura, e altre regole che di fatto impediscono la piena autonomia delle famiglie.
La notte dell’incendio, le famiglie di Barra hanno trovato la tiepida accoglienza dei
funzionari comunali e molte hanno deciso di andarsene.
Corsi e ricorsi storici
Nel 2006 un incendio in un campo di Casoria che oggi non esiste più, aveva spinto un gruppo di famiglie a trovare riparo in una chiesa a Scampia e poi successivamente furono accompagnate nell’allora neonato centro di accoglienza Deledda. Stessa scena, famiglie con bambini allo sbaraglio, reduci da giorni e notti ammassati in un freddo stanzone, trasferimento notturno e accoglienza nel centro condita dalla brutalità di operatori che ci tenevano a mantenere una certa distanza e a dettare norme di comportamento di base a persone evidentemente ritenute non pienamente civilizzate.
Un approccio distorto
Tutti noi che da venti anni e oltre ci occupiamo di seguire le sorti delle comunità rom a Napoli e provincia, siamo stati testimoni, tra le varie cose, anche di questi atteggiamenti da parte dell’istituzione o di chi in sua vece gestisce la “questione rom” con i suoi annessi e connessi, perché c’è a monte un approccio distorto – che forse serve a semplificare l’ordinaria amministrazione – che pone la questione su un piano securitario ed emergenziale e non conosce altro metodo che l’assimilazione culturale. I rom, è risaputo, non si vogliono integrare e quindi vanno educati anche con le maniere forti se serve, quando entrano in contatto con i non rom.
Finchè restano nell’invisibilità invece, possono anche vivere nel precariato più totale e rischiare qualche incendio in assenza totale di prospettive future.
A Casoria
Infine, a Casoria, area metropolitana di Napoli, nel cosiddetto campo del Cantariello, che pure esiste da circa venti anni, un incendio è scoppiato il 14 agosto, partito dalle palazzine limitrofe. Gli effetti non sono stati tali da doversi spostare dall’area, ma le famiglie sono rimaste a respirare un’aria insalubre e a rimettere insieme i pezzi di una estate davvero infernale. Anche qui, le trattative con le istituzioni almeno per migliorare la questione abitativa, si erano arenate.
Generazioni senza nome
Si tratta di almeno due “generazioni senza nome” maltrattate da una politica pubblica che esclude e punisce. Crediamo sia responsabilità condivisa quella di non aver denunciato abbastanza, di non aver urlato fino a perdere la voce, di non aver raccontato con il rischio di diventare ossessivi, ma di avere al contrario in qualche modo avallato questa politica – forse nella speranza di raggiungere qualche risultato? – ed essere stati complici di una segregazione esplicita e alla luce del sole.
Il vuoto istituzionale
L’abbrutimento e lo stordimento culturale che ha colpito tutti, dalla politica alla società civile, molto prima e molto di più del Covid-19, ha fatto precipitare la situazione in una regressione tale da rendere avvilente qualunque tipo di intervento, progettazione, tavolo di contrattazione. Nel vuoto istituzionale che propone il nulla o mediocrissimi progetti di scolarizzazione – basti vedere l’ultimo bando per la scolarizzazione dei minori rom, sinti e caminanti del comune di Napoli – riesce ad avere spazio di manovra chi ritrova un senso anche spirituale alla “missione” di “occuparsi” delle comunità rom e ha in qualche modo l’autonomia economica per farlo – pensiamo alle molte comunità religiose senza le quali molti territori sarebbero completamente scoperti – oppure un terzo settore sfiancato dalle condizioni lavorative e contrattuali, sul quale ricade anche una certa responsabilità prima di tutto etica e morale, ma che fa fatica a mettersi insieme e in maniera forte e compatta denunciare e ribaltare la situazione, o ancora “gagio” solidali, che in molti territori costituiscono reti importanti, ma attualmente ugualmente disorientati rispetto a quali obiettivi si possono raggiungere nelle attuali condizioni.
La Lotta
La lotta – se di lotta vogliamo parlare e non di quieto vivere – deve essere spostata su un piano politico e culturale per il ripristino dei diritti civili dei rom che sono stati calpestati per decenni, soprattutto nel sud Italia.
Non basta più ragionare in termini emergenziali e solo sul presente, senza memoria e senza futuro, mettendo a tacere gli eventi umanamente e politicamente più scabrosi per continuare come se nulla fosse fino a che le comunità rom, una storica presenza sui nostri territori, non saranno un raro ricordo.
Occorre fare uno sforzo congiunto, richiamando le forze anche sul piano nazionale ed europeo ed uscire dalla barbarie, a cui ci siamo tristemente abituati e che ci vede tutti coinvolti.
L’auspicio
L’auspicio è riuscire a rilanciare sul livello nazionale un confronto onesto, in cui fare un bilancio sui (molti) fallimenti e alcuni successi delle politiche degli ultimi decenni per le comunità rom, fare riferimento e replicare quelle pratiche di cittadinanza attiva che negli anni anche a Napoli abbiamo contribuito a realizzare, in cui coinvolgere cittadini attenti al bene comune, mettere al servizio della causa le forza migliori e tutto il potenziale professionale e civico, unire vertenze comuni e inserirle nei piani di miglioramento delle città.
Insomma, ci ostiniamo a pensare che non tutto è perduto e che da questa terra bruciata possa ancora nascere qualcosa.