“Il diritto a muoversi (con i trasporti) inizia dalla periferia” è un articolo della rubrica mensile Diari da Scampia – Racconti storie e sguardi dalla periferia, a cura di Emma Ferulano e Giuseppe Manzo.
In copertina il bozzetto del murales di Felice Pignataro – Gridas “Il treno dei diritti va troppo lento”.
Il diritto a muoversi (con i trasporti) inizia dalla periferia
Immaginate di salire a Roma Termini e prendere un treno Freccia Rossa o Italo per Napoli. Salvo clamorosi imprevisti in 70-75 minuti sarete a piazza Garibaldi. Immaginate che dovete poi andare a lavorare o raggiungere familiari o amici a Scampia: tra attesa del treno della linea metropolitana e tempi di percorrenza ci vorrà quasi lo stesso tempo.
Il tema dei trasporti in città è ormai un’emergenza che riempie le pagine dei giornali. Di solito ogni Amministrazione dà la colpa a quella precedente e promette imminenti cambiamenti con l’arrivo di nuovi treni. Ma, poi, basta la metropolitana?
Negli ultimi 15 anni abbiamo assistito a una graduale dismissione dei trasporti. Fino a metà dei primi anni dieci del 2000 dalla periferia al centro c’erano a disposizione interscambi bus-tram o bus-metro che in 20 minuti permettevano di raggiungere i luoghi di studio e di lavoro.
In un quartiere come Scampia scendere alla fermata della metro non significa essere arrivati a destinazione. Se ad esempio dovete andare al centro Chikù avete due opzioni: attendere un autobus o farvela a piedi per almeno 20 minuti. Certo, è anche salutare farsela a piedi ma quando a muoversi sono persone anziane o con disabilità? Per non parlare delle ore serali e quindi per un tema di sicurezza?
Le periferie a Napoli hanno subito un taglio drastico e drammatico dei collegamenti tanto che un a febbraio è stato calcolato come 1 napoletano su 2 non usa più i mezzi pubblici per spostarsi. A onor del vero anche i quartieri più collegati come il Vomero con le sue fermate della linea 2 o come Chiaia-Posillipo non se la passano bene con il trasporto su gomma.
C’è poi un altro tema che spesso viene eluso dal dibattito pubblico sulla mobilità. Quartieri come Scampia sono molto vicini non solo ad altri quartieri della periferia nord ma anche comuni della cintura metropolitana come Mugnano, Marano e Melito: come raggiungerli se non con l’uso di mezzi privati? Al massimo stipati in quei pochi bus rimasti in strada con tempi biblici di attesa e percorrenza. Per non parlare, poi, come raggiungere una periferia opposta alla propria zona di residenza: in tal senso si gioca anche la possibilità di immaginare la “delocalizzazione” di servizi, sedi istituzionali o luoghi per il tempo libero.
L’apertura dell’Università dovrebbe mettere al centro la questione trasporti per studenti e docenti, oltre l’uso dell’auto. La risposta ovvia è quella della vicina università. È sufficiente? No. A dimostrarlo è ciò che è avvenuto a San Giovanni a Teduccio dopo l’apertura della sede della Federico II: prolungamento della linea 1 metropolitana di Trenitalia e l’azzeramento di bus con i tram che a singhiozzo riprendono dopo 5 anni il loro funzionamento.
Il punto è sempre quello: i trasporti devono essere un servizio e anche un’occasione di mobilità per contribuire a un miglioramento delle periferie? Oppure sono condizionati dalle esigenze istituzionali-produttive quando si presentano con nuove sedi?
In questo senso il diritto a una mobilità e al trasporto pubblico diventa l’asset su cui si muove il filo delle disuguaglianze dentro la città. Si ricordano ancora le reazioni e i dibattiti a mezzo stampa sull’arrivo dei giovani della periferia nord nella zona collinare colpevoli di risse e aggressioni. Oltre i singoli episodi con il tempo proprio dai collegamenti interni alla città si gioca la sfida di non facilitare la creazione di quartieri bunker dove chi vive non conosce nemmeno altre zone della metropoli. In questo senso si permette, in ogni parte si risieda, di conoscere la realtà e lo scambio tra segmenti sociali ed esperienze diverse.
I trasporti sono l’anello di una catena per immaginare e costruire la città in ogni sua possibile sostenibilità sociale, urbana e culturale. E, senza dimenticarlo mai, un diritto per ogni cittadino.
Dall’assenza al riscatto
La natalizia re/inaugurazione nel 2018 della parte inferiore della fermata Piscinola / Scampia, il capolinea della Linea 1 della metropolitana di Napoli, alla presenza del governatore regionale De Luca e del presidente dell’EAV De Gregorio, che la rendono ufficialmente stazione d’arte così come tutte le altre, per qualche istante fa sperare in una rivoluzione dei trasporti pubblici e della loro gestione. La metropolitana in effetti già ci arrivava dal 1995 a Scampia, ma quello che fino a poco fa era un ingresso presidiato solo da camionette dell’esercito per questione di ordine pubblico, diventa un varco in cui poter ammirare opere di illustri esponenti dell’arte contemporanea, e su cui troneggia oltre alla scritta SCAMPIA, che presto perderà qualche lettera, quella ancor più imponente REGIONE CAMPANIA, come a riscrivere una cartografia, a ricordare che il quartiere fa parte della Regione, ad ammetterlo ufficialmente tra i suoi territori. Significa anche che Scampia è punto di snodo tra la città e la sua area metropolitana perché da lì parte anche la Linea Arcobaleno, la MetroCampania NordEst che collega, Napoli ad Aversa, passando per Giugliano.
L’inaugurazione sembra inoltre un preludio ad un’altra imminente apertura, quella dell’Università che invece finirà il suo cantiere solo quattro anni dopo. Migliaia di persone in linea teorica sono invitate a muoversi riponendo maggiore fiducia nel trasporto pubblico e senza spaventarsi se devono fare il cambio a Scampia. I mezzi pubblici dunque ci sarebbero, gli investimenti sono stati imponenti, ma la gestione è imbarazzante, e dopo cinque anni dalla pomposa cerimonia non ne è stato potenziato l’utilizzo. Si preferisce lasciare i cittadini a cuocere nel loro brodo durante le interminabili attese dei treni, in un misto di ansia, rassegnazione, odio, incredulità. Viene il sospetto che gli enti gestori ci tengano a questo primato, e forse alla fine li dobbiamo pure ringraziare: ormai la fama della lentezza, dei quadretti di vita surreali, delle relazioni che nascono in questi tempi di vita che ciascuno di noi, chi quotidianamente chi almeno una volta, ha speso nelle attese dei mezzi di ogni tipo, si è diffusa in tutto il mondo, e anche i turisti sanno che il trasporto pubblico napoletano è imprevedibile e in fondo simpatico, fa parte del folklore.
Se la città di Napoli è, tutto sommato, piccola e ce la si può comunque cavare in qualche modo, male che vada rientrando nella categoria dei ritardatari cronici, la situazione diventa però grottesca per quanto riguarda sia la periferia che i comuni dell’area metropolitana, che sono a 15 minuti di macchina e a due ore con i mezzi pubblici. E chi risulta maggiormente penalizzato e isolato da questa situazione? La risposta è scontata, ma vale la pena ribadirla. Chi non possiede, non può e non vuole possedere un’auto, chi non ha la patente, chi ha difficoltà a muoversi in autonomia per qualsiasi ragione. Poveri, bambin, giovani, migranti, donne sole o con figli, disabili, anziani, diventano tutte e tutti dipendenti da qualcun altro se hanno l’ambizione di spostarsi quindi meglio ancora sarebbe se rinunciassero in partenza e restassero confinati lì dove sono. Ci sono naturalmente quelle e quelli che decidono di sfidare le leggi della mobilità, per necessità ma anche per inquietudine e curiosità, diventando dei veri e propri pionieri, camminatrici incallite, pirati e piratesse della strada, in fondo amanti delle esplorazioni e delle avventure. Nel mare delle avversità, per essere vivi e non limitarsi a sopravvivere, bisogna esercitare tutta la propria creatività e lungimiranza, non attivando la tanto sopravvalutata resilienza e adattandosi senza troppi traumi a quanto ci è dato, quanto piuttosto iniziando a comprendere, disobbedire, ribaltare, richiedere, pretendere – quei tanti agognati diritti tenuti sotto scacco e distribuiti come briciole. In pratica attraversare la città, ma anche semplicemente un quartiere gigante come Scampia, o arrivare dalla circostante area metropolitana, con tutto quello che comporta – superare le barriere architettoniche, intrecciare relazioni, trovare punti di riferimento, vivere gli spazi pubblici, addirittura migliorarli con la propria presenza e azione, spezzare l’isolamento, raggiungere i propri obiettivi – diventa un atto politico quasi sovversivo.
Noi, sulla scia di luminosi riferimenti pratici e teorici, lo abbiamo sempre inteso così e ne abbiamo fatto terreno di crescita personale e collettiva, inchiesta sociale, critica, scontro.
Nella storia di chi rom e…chi no, il tempo del viaggio è un tempo di pura azione pedagogica, un tempo in cui da un lato consolidare la relazione, dall’altro lasciare spazio al prezioso apprendimento informale, dare centralità alle esperienze evolutive in contesti non per forza strutturati, trarre beneficio da quel processo di educazione incidentale in cui il territorio diventa un alleato fondamentale. Andare a prendere e riaccompagnare bambine e bambini, anche i giovani in grado di arrivare con i loro piedi, ma più pigri e demotivati, dai campi, dalle case, dalle baracche, dai rioni, per raggiungere i laboratori di volta in volta proposti, attraversare con loro il quartiere e la città con le macchine, i furgoni, a piedi, di giorno e di notte, con la pioggia e con il sole, ci ha consentito di estendere il tempo e lo spazio della relazione educativa, arricchendolo con le chiacchiere, i litigi, gli scontri, le risate, la stanchezza.
Abbiamo cercato di non far diventare l’accompagnamento mero assistenzialismo e motivo di dipendenza – come pure è accaduto nella storia dei campi rom comunali di tutta Italia in cui l’accompagnamento scolastico messo a disposizione o meno dalle amministrazioni, vista la lontananza siderale da tutte le altre possibilità di comunicazione, ha decretato la frequenza e il successo scolastico di migliaia di bambin. Andare a prendere i ragazzi, ha permesso la partecipazione anche dei più irriducibili e ha significato mettere in moto una macchina inarrestabile di vero “inserimento sociale”, a partire da quello basico negli spazi pubblici cittadini in cui non è frequente vedere né i rom né gli abitanti dei rioni popolari più sperduti.
Un esempio su tutti, il progetto teatrale Arrevuoto che oggi compie 17 anni, ha portato per la prima volta nella storia della città di Napoli famiglie rom a teatro nel centro cittadino, a stretto contatto con famiglie della borghesia napoletana più avvezze a quegli ambienti culturali, provocando vaghi accenni di mobilità sociale altrimenti del tutto statica. Lo ha fatto e lo fa grazie alla ostinazione di abbattere barriere e pregiudizi, ma anche materialmente grazie all’organizzazione di bus, pulmini e macchine, con educatrici e operatori che si sono incaricati del trasporto dalle più remote zone del campo. A volte, magari in assenza totale di un circuito di protezione familiare di qualche tipo, andare a prendere i ragazzi è significato anche salvarli da situazioni pericolose e degradanti.
In generale, ci ha consentito e ci ha dato l’enorme privilegio di entrare in punta di piedi nei loro contesti di riferimento, vedere, capire, entrare in dialogo e provare insieme, grandi e piccoli, a ribaltare uno status quo oppressivo e sanare le ingiustizie. Ne siamo sempre usciti più rispettosi di prima e illuminati da incontri, sguardi, parole. Questo dialogo mai interrotto, che proviamo a tramandare alle nuove generazioni di operatrici educatrici e vari adulti di riferimento, ha nel tempo consentito l’attivazione periodica di risorse genitoriali con tutte le loro competenze sopite – saper guidare, saper organizzare, essere veri e propri esperti di logistica – che sono diventati poi strumenti di lavoro ed emancipazione professionale. La mancanza di diritti di base diventa una leva quasi rivoluzionaria, ma il percorso è ancora lunghissimo.
Oggi ci ritroviamo ad affrontare l’incandescente tema del lavoro dei giovani, e in particolare dei rom. Giovane, rom in alcuni casi italiano o italiana e in molti casi senza documenti, meridionale, abitante di una estrema periferia. Il mix può essere fatale. Donna può essere anche più limitante e faticoso. Partecipare ai normali e comunque ridotti corsi di formazione professionale, erogati giustamente senza tenere conto di tutta una serie di variabili e complessità, può diventare impossibile. Farsi prendere dalla pigrizia di dover prima di tutto affrontare il disagio dei trasporti, e poi molti altri tipi di difficoltà, è la soluzione più facile e più consueta, si preferisce restare limitrofi alle zone in cui si vive e accontentarsi di prendersi quello che residua dal mondo circostante e da altri poli produttivi. È certamente una maniera dignitosa di stare al mondo, ma resta tuttavia una prospettiva ristretta nelle possibilità di immaginare, sognare e aspirare anche ad altri traguardi. Uscire a prendersi qualcos’altro, lontano da casa, e poi cercare di tenerselo stretto a costo di qualche sacrificio, ha bisogno di spirito di iniziativa, rinnovata fiducia verso il mondo esterno e soprattutto verso le proprie possibilità, desiderio di cambiamento, piacere di fare una cosa mai fatta prima, anche solo di passare una giornata diversa.
Durante la prima giornata del nostro corso di formazione, avendo capito che la questione del trasporto sarebbe stata un grosso problema che metteva seriamente a rischio la partecipazione – chi da Giugliano, chi da Casoria – dopo aver fatto complicati piani di mobilità per cercare di capire come arginarla senza arrivare ad una vera strada sostenibile per arrivare da Chikù alle 9.30 del mattino – combinazione di treno + autobus, impercorribile, almeno due ore, autobus fino a un certo punto e poi a piedi qualche chilometro, solo per i più avventurosi… – ci siamo scoraggiate pensando che da quel giorno non sarebbe venuto più nessuno. Ma ci sarà stato qualcosa – a volte la vita è fatta anche di misteri – che ha convinto tutto il gruppo a trovare soluzioni creative per mobilitarsi, e da allora si presentano addirittura in anticipo di mezz’ora.
L’assenza o la scarsità o la malagestione di trasporto pubblico riesce a diventare quasi un’occasione di riscatto, di scoperta della città, delle proprie risorse, e si converte in una opportunità di innescare un dibattito politico a livello popolare, perché mette in moto riflessioni e passioni quotidianamente. Ma naturalmente questo non basta a sollevare e a deresponsabilizzare i nostri amministratori che possono continuare a ignorare ampie fasce di popolazione tagliate fuori da tutto, e la questione dei trasporti, così come quella dei diritti ancora in gran parte da ristabilire, resta centrale nelle nostre relazioni, osservazioni, narrazioni.
Può essere che a furia di discuterne, scriverne, alla fine ci sarà una vera mobilitazione di massa.
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