DJIANA E GLI ALTRI: IL DESTINO DEI ROM A SCAMPIA (E NAPOLI)
“Il destino dei Rom a Scampia” è un articolo della rubrica mensile Diari da Scampia – Racconti storie e sguardi dalla periferia, a cura di Emma Ferulano e Giuseppe Manzo.
Poco distante dall’Università di Scampia, quando Viale della Resistenza incontra via Cupa Perillo, al confine tra Napoli e Mugnano, sorge una costellazione di campi non autorizzati in cui vivono da alcuni decenni diverse comunità rom provenienti dalla ex Jugoslavia – in particolare dalla Serbia e dalla Macedonia.
Cupa Perillo è un’area in cui sopravvivono ampi spazi verdi e agricoli sovrastati dal ponte dell’asse mediano mai aperto in quel punto e suddiviso in varie zone in cui hanno trovato spazio comunità rom che si sono unite e hanno creato nuclei di baracche a seconda della provenienza e con criteri di appartenenza familiare, con la prevalenza dei due grandi gruppi di macedoni-musulmani e serbi-ortodossi. Nonostante l’assoluta precarietà dal punto di vista dei servizi (no luce, no acqua, no gas, no sistema fognario), da un punto di vista dell’autocostruzione e dell’autogestione le comunità in questione hanno mantenuto per molti anni una certa indipendenza con alcune incursioni istituzionali, che hanno avuto una recrudescenza negli ultimi anni, probabilmente a partire dal censimento del 2008, fino agli incendi probabilmente dolosi del 2017 e poi del 2021, che stanno causando di fatto l’inizio della fine della storia delle comunità rom in Cupa Perillo. Dal punto di vista territoriale, la posizione dei campi “non autorizzati” è abbastanza strategica – a differenza di quelli comunali che per definizione sono ai margini e collocati fuori delle città, spesso su strade a scorrimento veloce, così come il campo sull’asse perimetrale Melito – Secondigliano, dietro al carcere. A piedi si raggiungono subito sia alcuni punti nevralgici, i negozi e i servizi del quartiere Scampia, sia la provincia circostante. È un’area in qualche modo interna al quartiere, che confina con i suoi rioni e con gli abitanti napoletani, in cui le interazioni, gli scambi, gli affari e le relazioni tra rom e non rom sono sempre avvenute in maniera fluida e semplice, tranne in caso di conflitti dovuti soprattutto agli “sconfinamenti” territoriali ad opera dei giovani più spavaldi. In un quartiere di edilizia popolare e residenziale molto vasto e popolato, in cui scarseggiano punti di aggregazione, strutturato intorno a un sistema viario che non favorisce gli attraversamenti a piedi, viste le distanze siderali, nel corso del tempo si sono dovuti organizzare all’interno dei singoli rioni contesti di riferimento autonomi per le comunità, soprattutto punti commerciali e negozietti anche informali. Anche a Cupa Perillo è successo così, rom e non rom avevano avviato piccole attività stanziali, come il bar/spaccio alimentare di Nino nella rotonda, o la baracca / chiesa evangelica che ha fatto un po’ di proseliti, o ambulanti, come il tatuatore a domicilio, il furgoncino con le graffe fritte, una macchina che vende bibite fredde, la scola Jungla di chi rom e…chi no che, ormai anni fa, sono diventate punti di riferimento per questioni generali. Arrivare ed entrare nel campo è abbastanza facile, e questo ha portato negli anni volontari, associazioni, cattolici e laici, artisti, registi o giornalisti affascinati dall’idea di fotografare, ritrarre, intervistare, cogliere il mistero dei rom, con un fiorire di attività soprattutto di tipo assistenziale, ma anche ludico, sociale, e non per forza legate all’intervento istituzionale così come avviene nei campi comunali, vista la natura ibrida e “abusiva” della zona.
Cosa vedono, oggi, gli abitanti rom quando si svegliano la mattina prima ancora di cominciare la giornata?
Cumuli di rifiuti che sono diventati ormai delle barriere.
In attesa che l’amministrazione comunale decida, dopo approfonditi studi, quali piani e quali politiche abitative attuare nell’area, le (antiche) comunità rom di Cupa Perillo, composte prevalentemente da bambini e giovani, oltre a vederla, respirano letteralmente immondizia, giorno per giorno, minuto per minuto. La presenza dei vari cumuli dei rifiuti è resa ancora più paradossale dal fatto che sulla stessa strada si accede a una delle più grandi isole ecologiche della città nonché autoparco dei nuovi mezzi dell’Asia di Napoli, inaugurata nel 2012. I rom, da un lato non possono accedervi agevolmente per portarvi eventualmente i propri rifiuti ingombranti, non essendo la maggior parte residenti, dall’altro non possono aspettarsi che sia un loro diritto il prelievo ordinario essendo alcune di queste strade classificate come abusive. A nulla sono valse le denunce, gli articoli, i report, le petizioni rivolte alle amministrazioni, promosse da comitati, preti, associazioni, che solo negli ultimi quindici anni saranno state migliaia. Gli sversamenti illegali continuano, di notte e di giorno, e la rimozione avviene o in maniera straordinaria quando si arriva al limite dell’emergenza sanitaria, con uno sperpero di fondi pubblici, o sporadicamente ad opera degli stessi abitanti che con una colletta riescono a pagare un servizio privato, oppure non avviene. Non è cambiato niente neanche con l’arrivo di un presidio dell’esercito che piantona la zona dall’estate del 2017, quando un incendio quasi certamente di origine dolosa, ha distrutto la parte centrale del campo e spazzato via decine di baracche e centinaia di persone, per fortuna illese. I rom sembrano condannati a vivere così, anche da un immaginario collettivo che li vuole così. È anche vero che la vita in un campo in assenza di acqua, luce, servizi fognari, lontani dalla mente delle amministrazioni, accanto a una discarica è faticosa, ma in assenza di redditi, documenti, prospettive, politiche di welfare, è l’unica a cui si può aspirare.
Che futuro potranno mai immaginare se la loro vista, per non parlare della salute, è così tarpata e deturpata? Quali prospettive sognare se tutto intorno a loro gli continua a dire che non c’è altra alternativa possibile a queste condizioni abitative?
In un momento storico di evidente cambiamento per Scampia, ormai uno snodo nevralgico per tutta l’area nord metropolitana, con i suoi importanti cantieri edilizi e le sue trasformazioni urbanistiche e sociali, è triste constatare che ai rom non ha pensato nessuno, nessuno li ha invitati a partecipare a inaugurazioni e celebrazioni, è come se appartenessero a un altro pianeta.
Invece sono lì da oltre trent’anni.
Lo sa bene Djiana che è nata da genitori che per primi sono arrivati dalla Serbia già dagli anni ’70, quando ancora si considerava semplicemente Jugoslavia, per motivi lavorativi e si sono poi ritrovati a doverci rimanere per forza per colpa della guerra e delle pulizie etniche degli anni ’90. Il padre Života, un estimatore della politica di Tito ma anche della cultura rom, ci raccontava sempre che a quei tempi, prima della calcolata follia che ha messo gli uni contro gli altri diversi popoli e minoranze che fino a quel momento si erano sempre rispettati, convivevano tutti in uno stesso territorio, e tutti avevano un posto nella società. Anche i rom, con una casa, un pezzo di terra, un lavoro. Andavano persino in vacanza. Ci faceva intravedere questo mondo sconosciuto dalle sue parole, fumando ininterrottamente seduto fuori la sua baracca sotto il ponte dell’asse mediano, dove ci invitava sempre per un caffè e un bicchierino quando faceva freddo. Per arrivarci bisognava attraversare un vialetto sgarrupato che puntualmente si allagava con le piogge e dove abbiamo tutti prima o poi lasciato una ruota o un ammortizzatore. Era meglio andarci a piedi e sfidare il fango. Il fratello di Djiana che andavamo a prendere per il teatro, non voleva assolutamente attraversare la strada in quelle condizioni per non sporcare le scarpe e fare una brutta figura con le sue coetanee. Abbiamo improvvisato diversi ponti pur di portarlo. Era famoso Života – che in italiano potrebbe tradursi Vitale, di nome e di fatto – per la sua intelligenza e ironia, con il suo bellissimo sorriso ci prendeva in giro quando capiva che i gagè erano fonte soprattutto di guai e mai di buone notizie. Con il suo furgone era riuscito non solo a trovare lavoro, ma anche a dare una lezione di stile indimenticabile. Quando si trattava di andare a prendere e accompagnare persone considerate importanti e che per la prima volta arrivavano a Scampia, per fare bella figura metteva le sedie buone di legno del suo salotto che erano notevoli per la loro tappezzeria ma piuttosto scomode perché durante il viaggio non si reggevano. Tuttavia, le ospiti più illustri gli erano grate per quel tocco di classe inaspettato.
Djiana, bella come il padre, non si è mai sposata. Sostenuta dal padre e dalle organizzazioni che ruotano intorno al campo, ha provato a inserirsi nei circuiti lavorativi come mediatrice culturale, accompagnatrice scolastica, operatrice sociale. Le voci che circolavano sul suo conto erano di ogni tipo, una donna non sposata e senza figli genera sempre sospetto, non solo tra i rom, ma lei ha ereditato l’ironia del padre e non si è mai curata dei pettegolezzi. Chissà quanto hanno pesato realmente in fondo al suo cuore, che si esprimeva attraverso occhi sempre inquieti. Lei e il padre hanno provato per anni a restare in equilibrio mantenendo dignità e indipendenza e intrecciando relazioni con i non rom per restare a galla in un mercato del lavoro difficile, con eterne problematiche legate ai permessi di soggiorno, in una condizione di vita estrema nel campo, con un reddito precario che non sarebbe mai potuto essere sufficiente per quello scarto di benessere a cui tutte aspirano, e a cui tutte e tutti dovrebbero poter avere accesso. Ci hanno provato, ma alla fine Djiana e il fratello sono dovuti emigrare a cercare un futuro migliore nel nord Europa dove una parte della loro famiglia si era già da tempo sistemata, con casa, lavoro, documenti, prospettive per il futuro. Života invece non ce l’ha fatta a immaginare un’altra vita ancora, una terza vita altrove, e se n’è andato senza mai più vedere la sua amata (ex) Jugoslavia.
Vivere in un limbo è il destino di almeno due generazioni di giovani rom, che hanno avuta la disgrazia di nascere sotto il segno di tre stigmi molto pesanti, sempre più faticosi da reggere. Rom, da sempre e tuttora la minoranza più discriminata d’Europa, che in molti casi condanna ad essere sottoposti quotidianamente a forme di razzismo, violenza e violazioni dei diritti umani, prime tra tutti gli sgomberi coatti messi in atto dalle istituzioni. Giovani, una categoria ignorata dall’inettitudine generale di schiere di classi dirigenti, tanto più in un paese governato da (vecchi) burocrati miopi che non pensano a nient’altro che difendere potere e privilegi. Meridionali, è un dato di fatto che nascere e crescere nell’area metropolitana, ad esempio, di Napoli significa partire con uno svantaggio netto nella gara della vita. “La tradizione degli oppressi ci insegna che ‘lo stato d’emergenza’ in cui viviamo non è l’eccezione, ma la regola”, scriveva Walter Benjamin, e questo incipit lo abbiamo usato in un rapporto di circa dieci anni fa che abbiamo scritto per ERRC – European Roma Right Centre – dal titolo significativo “Residence, Nowhere”, residenze inesistenti per vite invisibili, che devono aspettare letteralmente decenni per vedersi riconosciuti i diritti di cittadinanza. Nel frattempo, con fatica, sacrifici, errori, e un significativo sostegno delle reti non solo familiari, riescono a sopravvivere, ma in che modo? Raccontare questo significa portare alla luce il dramma di migliaia di ragazze e ragazzi che parlano italiano, anche napoletano, hanno passione e talenti da tirare fuori ma restano per tutti rom figli di rifugiati per una comunità maggioritaria che li considera “marginale” e in cui inserirsi era veramente arduo.
Di cosa parliamo: i numeri e le politiche dello sgombero
In Italia si registrano 50 insediamenti abitati da 8519 rom; 67 insediamenti abitati da 4748 sinti; 3 insediamenti abitati in forma mista da 219 rom e sinti. Per un totale di 120 insediamenti abitati da 13486 rom e sinti.
Questi sono i dati aggiornati del sito il paesedeicampi.it dell’Associazione 21 Luglio. In Italia l’insediamento più grande si trova a Roma, in via Candoni, dove sono accolte 795 persone ma la massima concentrazione si rileva nell’area metropolitana di Napoli, con 8 insediamenti e 1.336 persone. Sempre a Napoli e a Brescia ci sono gli unici due “centri di raccolta rom”, dove risultano presenti 218 persone.
Partire dai numeri è fondamentale per avere le lenti giuste quando si grida all’emergenza di fronte a un qualsiasi fenomeno umano e sociale. Stiamo parlando a Napoli di 1.336 persone e per capire la proporzione basta sapere che non esiste un quartiere in città dove abitano meno di 30mila persone su 950mila residenti nel Comune e circa 3 milioni nella provincia: stiamo parlando dello 0,4% della popolazione residente di tutta l’area metropolitana.
Dal 2008 ad oggi tutte le amministrazioni comunali, dalla Iervolino a De Magistris fino a quella attuale, assistono ai roghi degli insediamenti: quello di Ponticelli nella primavera di 15 anni fa fino a quelli di Barra, Caivano, Gianturco, Giugliano e Scampia. Nell’area est le improvvise folate di “insofferenza sociale” tra roghi e sgomberi sono coincise con nuovi piani urbanistici attuativi che convertivano i suoli degli insediamenti o quelli nelle vicinanze a terreni edificabili dove sono sorti centri commerciali e hotel.
La gestione di questa “emergenza” non è un problema “politico” ma è prettamente istituzionale senza variazioni di sorta rispetto agli schieramenti. Proprio a Napoli la condanna di Amnesty sul fronte dei diritti umani per le condizioni in cui vivono e vengono trattate le comunità è arrivata quando era sindaco Luigi de Magistris con la sua Amministrazione “rivoluzionaria” mentre gli assessori delle diverse Giunte di area centrosinistra hanno mostrato lo stesso approccio “prudente” verso questa situazione e le sue ricadute sociali.
Altro capitolo “sensibile” è quello legato ai roghi. In Terra dei fuochi il fenomeno sta conoscendo solo nel 2022 un leggero calo secondo i dati della Prefettura attraverso le azioni di contrasto: -80% dei roghi registrati. A volte questi incendi di rifiuti speciali o urbani sono avvenuti nei pressi dei campi rom come quelli di Caivano e Giugliano spostando le accuse di una parte della cittadinanza attiva, quasi sempre in modo strumentale e politicamente speculativo, contro i rom.
Chi è entrato in un insediamento come quello di Caivano e ha parlato con gli abitanti come fanno le reti ambientaliste più rappresentative del territorio si è reso conto che quegli stessi roghi erano provocati da blitz di ignoti che dopo aver accatastato rifiuti li bruciavano con le stesse proteste dei rom.
Se leggiamo nel dettaglio il report 2022 dell’incaricato prefettizio sul fenomeno roghi si legge: “continuano, invece, gli abbandoni di rifiuti nel territorio, in quanto restano, infatti, invariati i fattori determinanti della “fuoriuscita” dei rifiuti dai circuiti legali, che di detti abbandoni sono causa. La carenza di impianti per lo smaltimento dei rifiuti (basti ricordare che la Campania è la regione italiana ed europea con il più alto tonnellaggio di rifiuti esportati verso altre destinazioni), l’elevato tasso di evasione della Tari, peraltro attestata in Terra dei fuochi sui valori più cari a livello nazionale e la presenza di attività imprenditoriali (commerciali, manifatturiere ed agricole) che lavorano al nero o che comunque trovano preferibile conferire i propri rifiuti di lavorazione attraverso i più economici circuiti illegali restano problemi irrisolti in regione”.
Insomma, dei rom non c’è traccia come fattore decisivo per il fenomeno dei roghi di rifiuti. Sono solo alcuni esempi di come identificare nelle comunità Rom il Malaussene del suolo italico, capro espiatorio quando si vogliono creare campagne mediatico-politiche alla vigilia di tornate elettorali.
E potrebbe far storia la vicenda di Hasib Omerovic che a Roma il 25 luglio 2022. Prima di Natale la procura di Roma ha chiesto e ottenuto dal giudice l’arresto del poliziotto Andrea Pellegrini, accusato di tortura, per il caso delle violenze subite da Omerovic, persona sordomuta. Per fuggire alla violenza Hasib si è lanciato dalla finestra della sua stanza durante una visita senza autorizzazione da parte di 4 agenti del commissariato di Primavalle, quartiere popolare della periferiA ovest di Roma. Ad “aiutare” la magistratura è stata un’opera di informazione a ogni livello: quello dell’Associazione 21 luglio e della famiglia Omerovic che hanno sollevato il caso portandolo all’attenzione dei media e del parlamentare Riccardo Magi.
Il caso ha dimostrato come sia possibile superare certi stereotipi se la narrazione sui rom diventi il frutto di un’alleanza che parta soprattutto dal loro protagonismo insieme alle associazioni, agli attivisti per i diritti umani, ai media che fanno il loro lavoro e chi nelle istituzioni rispetta i dettami della Costituzione.
Il futuro dei giovani
È un vero è proprio stato di emergenza quello in cui si trovano le generazioni rom di giovani di oggi e di domani, le bambine e i bambini. Ma i campi, informali e istituzionali, peggiorano e in qualche caso lentamente si svuotano, svuotando i territori come Scampia, di presenze storiche, di portatori di saperi e patrimoni altri, di tracce culturali che svaniranno per sempre. Ci si sbarazza di comunità scomode, povere e senza alcun potere di contrattazione. Gli anziani piangono, si rammaricano, chi ha la forza si dispera, ma per lo più prevale una rassegnazione che serve anche a risparmiare le forze in contesti di pura sopravvivenza. I giovani ci provano, a volte emigrano, ma come possono veramente sopportare la consapevolezza di non avere vie di uscita senza portarne i segni sul lungo termine? Dopo la pandemia, a Cupa Perillo, le comunità hanno mutato la loro composizione, gli anziani si fidano ancora di alcuni di noi, dei gagiò, più che altro per la storicità delle relazioni umane, ma hanno certamente perso ogni fiducia in uno stato razzista, richiudendosi sempre di più su stesse e ritornando a preferire gli interventi assistenziali. Alcune famiglie stanno lasciando l’Italia, meglio tentare una nuova vita in Francia, Austria o in certi casi in Serbia, dove molti non erano nemmeno mai stati. Crollano molti discorsi legati alla necessità di una emancipazione individuale e collettiva, attraverso l’educazione, la formazione e il lavoro, come si prova a fare nella virtuosa comunità di Scampia, poiché in una situazione di oppressione generale è indicibilmente faticoso mantenere una continuità e uno spirito positivo, soprattutto per le giovani donne che sono caricate di molti pesi e che si trovano spesso sole a occuparsi della sopravvivenza di famiglie allargate e numerose, dovendo anche fronteggiare a testa alta spaventosi lutti e traversie giudiziarie legati alle estreme condizioni di vita a cui tutti loro, i giovani in particolare, sono esposti.
Leggi anche “Alla ricerca di una comunità educante a Scampia”.