Alla ricerca di una comunità educante a Scampia
Articolo di Emma Ferulano e Giuseppe Manzo
L’Università a Scampia
Manuel da qualche tempo si sveglia la mattina e aprendo il balcone della camera da letto vede la nuova imponente sede universitaria che fa sentire la sua presenza anche attraverso una scritta a caratteri cubitali che non lascia spazio a dubbi sulla destinazione d’uso scientifica e culturale per il quale è stato costruito, in tanti anni, quell’enorme cilindro. Legge quella scritta e si chiede cos’è, cosa si fa, quando si va, chi sono quegli studenti, giovani un po’ più grandi di lui che vanno e vengono…è un cambiamento davvero epocale per il quartiere questa recente apertura che può aprire prospettive diverse per il futuro.
Difficile lasciarsi travolgere…
Per Manuel è difficile lasciarsi travolgere dall’entusiasmo anche mediatico che ha accompagnato l’intera operazione. Si è trasferito da poco in quelle palazzine, le case sono più nuove ma si sente troppo lontano dai suoi compagni, e ritorna tutte le volte che può al suo vecchio rione, dove tutto cadeva a pezzi ma potevano giocare a pallone fino a tardi sotto i balconi.
La sua famiglia ha accumulato negli anni vari strati di crisi e povertà cronica, lasciandogli già ora una eredità molto faticosa da cui liberarsi che gli impedisce di accedere a normali percorsi di crescita. La sua vita non è semplice, da molti punti di vista, è come una corsa a ostacoli. Con un padre assente e una madre che fa i salti mortali per l’intera famiglia, lui e i suoi fratelli vivono periodicamente sotto la minaccia di essere portati in casa-famiglia, per una serie di motivazioni, a partire dalla scarsa frequenza scolastica. Dal suo punto di vista andare a scuola è veramente una tortura, un tipo irrequieto come lui fa fatica anche solo a stare fermo, figuriamoci ad ascoltare e a concentrarsi.
Il mondo degli adulti
La relazione con il mondo degli adulti, in casa, a scuola, con gli insegnanti, con gli assistenti sociali, è sempre conflittuale perché c’è un pregiudizio reciproco che è durissimo da scardinare e anche perché Manuel non è mai stato trattato veramente come un bambino. Con il reddito di cittadinanza, la situazione in casa migliora, la madre è un po’ più rilassata, ma Manuel cresce in un quartiere che da un lato sta completando il suo sviluppo urbanistico con l’inaugurazione di nuove infrastrutture e dall’altro lascia i suoi abitanti più poveri e più giovani in balìa di questioni legate alla sopravvivenza che sono molto più grandi loro. Poi arriva la pandemia e con essa la chiusura forzata in casa che sposta le giornate di scuola sugli schermi di un computer, di un tablet, di uno smartphone, per chi ce l’ha, con grosse ripercussioni psicologiche, fisiche, ed emotive. Ma oltre a questo, per migliaia di persone, come per esempio per la famiglia di Manuel, l’isolamento, la rottura delle relazioni e delle infrastrutture sociali significano anche letteralmente la fame.
La scuola
Manuel interrompe il suo già precario rapporto con la scuola perché non riesce a seguire in nessun modo la didattica a distanza, non ha nemmeno una buona connessione, non può giocare a pallone con la luce del giorno e non può più scendere con i suoi compagni. Per fortuna, dopo qualche settimana si riescono a organizzare, capiscono che ci sono orari meno controllati in cui si possono incontrare e lui fa delle fughe serali per raggiungere gli altri sotto gli scantinati della vecchia casa dove stava prima, anche se questo gli costa tutta una serie di benedizioni da parte della madre. La scuola non riapre nemmeno a settembre, quando ormai il peggio del Covid sembra passato e in tutto il mondo ci si è resi conto che chiudere bambine bambini e ragazzi in casa è paragonabile a un delitto, è il furto di anni di infanzia e adolescenza. Nella sua regione, nella sua città, nel suo quartiere, chi governa lo fa solo dal punto di vista degli adulti e con ottica securitaria, non riesce ad abbassarsi al livello di bambine e ragazzi e non capisce che l’assenza di politiche sociali ed educative significherà letteralmente il sacrificio di una generazione di giovanissimi.
Scampia, comunità educante ma i servizi dove sono?
Gli alberi di canfora che costeggiano la villa comunale di Scampia sono solo una delle molteplici varietà botaniche che costellano e convivono nel vasto territorio dell’area nord di Napoli. Il leccio, il platano, il bagolare, l’albero del rosario, il tiglio, la sofora, il ligustro, il pino, il cedro, il prunus nigra, la paulonia, la farnia, il pioppo bianco, il ginko biloba sia maschio che femmina – una rarità, l’albero di Giuda, il corbezzolo, il melograno, alcuni tipi di palme e di aceri, e molti altri ancora, fra quelli preesistenti e quelli piantati nel corso degli anni dall’attività di abitanti e associazioni, costituiscono un prezioso patrimonio verde tanto importante quanto sconosciuto, uno tra i più felici e tanti primati del quartiere.
Immaginari
Per molto tempo, Scampia è stato solo il quartiere delle vele o il quartiere di Gomorra, e le due cose sono automaticamente associate nell’immaginario comune, sebbene “il supermercato della droga più esteso d’Europa” – una espressione molto amata e abusata negli ultimi quindici anni – coinvolgesse anche tutti gli altri rioni popolari. I sette edifici progettati con la legge 167 tra il 1962 e il 1975, sono stati fino ad oggi un catalizzatore di attenzione e titoloni, a partire dalla loro costruzione in una zona molto isolata, in campagna, all’epoca in cui per soddisfare il bisogno di case, venivano pianificate le periferie napoletane e il comune acquisiva nuove aree per l’edilizia popolare.
Una guerra
Con l’occupazione nel post-terremoto, fino a oggi, la storia delle vele è entrata a buon diritto in una narrazione che ha valorizzato soprattutto i suoi lati più oscuri. D’altra parte, i testimoni privilegiati del quartiere – quelli che da decenni si occupano di trasformarlo attraverso pratiche virtuose e che si preoccupano attivamente di divulgare una contro narrazione – utilizzano la parola guerra per raccontare il processo di urbanizzazione e insediamento di una fascia di popolazione povera, ghettizzata e isolata, una guerra di tutti contro tutti, contro le istituzioni, contro i nuovi arrivati, guerra tra bande di ragazzini rivali delle quattordici scale per ciascuna vela.
Servizi per l’infanzia
In questo scenario, oggi, il quartiere propone di nuovo una proposta dal basso per costruire la sua comunità educante partendo dalla prima infanzia fino all’adolescenza: ma i servizi dove sono? Per avere una risposta bisogna dare uno sguardo a ciò che è avvenuto e avviene in tutta la città di Napoli.
Partiamo dai dati del 2022, quelli Istat sulla spesa per l’infanzia: “nelle province del Centro-nord la spesa pro-capite dei capoluoghi si attesta a 2.214 euro, a fronte di una spesa media per bambino di 0-2 anni pari a 748 euro nei Comuni non capoluogo e a 691 euro nei capoluoghi di provincia del Mezzogiorno. Ammonta a soli 232 euro la spesa pro-capite dei Comuni non capoluogo meridionali”. Questo dato sulla spesa diventa drammatico se si pensa a quello di Openpolis della percentuale di minori per numero di abitanti che vede Napoli e Caserta ai primi posti: a livello provinciale, Napoli, Caserta e Crotone sono le aree del paese con la concentrazione maggiore di minori adolescenti, che sono rispettivamente il 4,77%, il 4,63% e il 4,50% dei residenti totali. Sempre Openpolis ci dice che le famiglie più numerose e maggiormente esposte alla povertà si trovano nella città metropolitana di Napoli (2,77 in media nella ex provincia). Seguono le aree provinciali di altre città del Sud.
Però bisogna guardare anche all’interno della stessa città che, come Milano e Roma, presenta delle fratture evidenti. I dati dell’Atlante dell’infanzia già nel 2018 ci dicevano che le persone tra i 15 ed i 52 anni che non hanno un diploma di scuola secondaria di primo grado, a Napoli nella zona del Vomero sono il 2% e a Scampia il 20%. E che c’è una differenza nell’apprendimento scolastico di 25 punti INVALSI tra i bambini dei quartieri più svantaggiati e quelli che abitano a Posillipo.
Di fronte a uno scenario di questo tipo i servizi da dedicare all’infanzia, partendo da quella 0-3 fino a all’adolescenza dovrebbero essere la priorità di ogni azione istituzionale. Eppure nella primavera del 2022 a Napoli abbiamo assistito a un dibattito fuori dal tempo per la gestione degli asili nido pubblico/terzo settore senza entrare nel merito dell’offerta educativa complessiva che vede un gap del 20% della domanda rispetto ai posti disponibili.
Nonostante la presenza di percorsi, processi di comunità, cura e valorizzazione dello spazio pubblico, soprattutto dal basso e in connessione sempre più stretta con gli enti locali, che non si sono praticamente mai interrotti nemmeno durante il lock-down, nonostante Scampia sia davvero un’avanguardia, simbolo e centro propulsore di una pratica politica, pedagogica, culturale che da tutto il mondo vengono a osservare e studiare, non sembrano ancora esserci alternative valide, forti e radicate.
Luoghi di relazioni
Quei pezzi di comunità che da tempo ragionano insieme e intervengono sullo spazio pubblico provando a uscire da un immaginario conformista e predatorio, cercano di avere voce in capitolo anche in questa fase storica in cui i “grandi” sono ritornati ad occuparsi del territorio. È anche una questione di punti di vista. Per alcuni di noi, le vele, i campi rom, il lotto p, il lotto g, le torri, l’Oasi, il Bakù, il Monterosa, le Cappe e quant’altro, sono stati i luoghi delle relazioni, dei murales partecipati, dell’accoglienza, del passaggio memorabile dei 40 carnevali del Gridas, dell’arte al servizio delle persone, come strumento rivoluzionario, della possibilità di incontrarsi e di far nascere un nuovo linguaggio comune. Sono stati i luoghi di apprendimento permanente prima di tutto per noi e poi di noi in relazione ai bambini, i giovani, le famiglie, lo spazio e il tempo della politica e della passione.
Un insieme di mondi
Il quartiere probabilmente più famoso d’Italia, certamente quello più raccontato, è soprattutto un insieme di mondi che lì si sono insediati, radicati, incrociati, sviluppati, e che hanno contribuito a farne la storia nell’arco dei suoi circa quarant’anni di vita. La fatica consiste, tuttora e ancora, nel creare possibilità di incontro, relazione, dialogo, gioco in un posto in cui il peso della presenza/assenza dello Stato, il facile attecchimento della camorra e di un consolidato sistema di economia illecita, l’assetto urbanistico hanno gravato per decenni, su tre generazioni di abitanti. L’assenza di una piazza d’incontro ha fatto sorgere decine di luoghi di socialità, educazione, gioco e convivialità, dove c’erano cumuli di immondizia e piccole o grandi discariche abusive sono nati giardini e aiuole che oggi vengono visitate dalle scolaresche e da gruppi di scout da tutta l’Italia, spazi chiusi e abbandonati sono stati aperti, rivitalizzati e restituiti alla comunità. Le scuole, di ogni ordine e grado, alcune facoltà universitarie, escono dall’ambito del nozionismo ed entrano in contatto con varie componenti della cittadinanza attiva e associazioniste, gli abitanti delle palazzine prendono ispirazione dai luoghi recuperati, iniziano a badare che la comune rampa per invalidi sia accessibile, i giardini vengono curati e rispettati senza bisogno di recintarli, strade che prima non erano percorribili adesso sono state liberate perché si è capito che lo spazio pubblico è di qualcuno, è di tutti.
Ribaltare le prospettive
La continuità, l’ostinazione e una buona dose di immaginazione nel ribaltare le prospettive e nell’affermare bellezza, giustizia e dignità, unita a una capacità di resistenza – talvolta proprio fisica – hanno portato al consolidamento di appuntamenti e luoghi che sono diventati un riferimento locale e internazionale e hanno reso Scampia un quartiere con una migliore qualità della vita, sebbene la povertà sia molto diffusa. La strada che porta verso il riconoscimento e l’affermazione di una normalità contro la straordinarietà che nel bene e nel male ha marchiato il quartiere, non è priva di ostacoli e paradossi.