Abitare, tra visioni e diritti negati
“Abitare, tra visioni e diritti negati” è un articolo della rubrica mensile Diari da Scampia – Racconti storie e sguardi dalla periferia, a cura di Emma Ferulano e Giuseppe Manzo.
Un film francese del 2020 dal titolo “Gagarine – Proteggi ciò che ami” racconta la storia della difesa strenua di un ragazzo di 16 anni di un enorme complesso residenziale nella banlieau in cui abita, la citè Gagarine alle porte di Parigi, che deve essere demolito e i suoi numerosi abitanti trasferiti. I tecnici dell’amministrazione cittadina si avvicendano e la decisione è inappellabile. Lui prova ad organizzare una resistenza collettiva, per difendere casa sua e l’intero mega condominio, ma resta sostanzialmente da solo nella sua ostinazione. La carrellata di immagini che scorrono sulle vite quotidiane che si svolgono in uno scenario obiettivamente squallido, così come siamo abituati a pensare e raccontare le ultraperiferie metropolitane, è talmente densa dell’amore che il ragazzo prova per il suo quartiere, rione, casa, che ci ritroviamo a osservarle con il suo sguardo e a trovare tutto bello, armonioso, gradevole, con la nostalgia delle cose perdute.
Ci prende la tristezza nel pensare di sradicare quelle vite da quel luogo in cui gli spazi e il suolo pubblico sono contesi da persone e cemento, e persino di abbattere quella smisurata opera edilizia che pure ci appare per quello che è, un luogo in cui difficilmente vorremmo vivere, anche se razionalmente sappiamo che è “giusto” farlo per procedere con un trasferimento che dovrebbe portare a migliori condizioni di vita.
Il film ci riporta alla realtà, subito, e colloca in una dimensione umana il dibattito su abbattimenti e trasferimenti più nostrani, che altrimenti resterebbe solo in una sfera retorica, ideologica, terreno di scontro opinionistico e/o consenso politico, se non fosse per il fatto che sono coinvolte migliaia di persone che, nel frattempo, in attesa di essere prese in considerazione nel loro diritto all’abitare vanno avanti con la loro storia, fatta di piccole cose quotidiane, e anche di piccole fantasie.
Se ci ricordiamo poi che, come il protagonista del film, la maggior parte degli abitanti della nostra periferia sono bambine, bambini, ragazzini, giovani, allora il gioco si fa ancora più pesante, in termini di responsabilità delle classi dirigenti e degli adulti in generale, verso intere generazioni. Scampia, una città nella città, è caratterizzata dalle diverse forme dell’abitare, una urbanistica che ha determinato la vita dei suoi abitanti, spesso in senso negativo. Le vele e i rioni popolari, il lotto p, le cappe, l’oasi del buon pastore, lo chalet bakù, i sette palazzi, i parchi privati e le cooperative, la nuova edilizia residenziale pubblica, i campi rom, le occupazioni e le mancate assegnazioni… Ma né gli anonimi alti e barricati palazzoni a schiera, né le cinematografiche vele, né i rioni in cui ha imperversato per decenni lo spaccio di droga, né le baracche autocostruite, sono luoghi neutri o connotati solo negativamente – brutti, fatiscenti, degradanti, disumani – e in tutti si mischiano le piccole storie di vita degli abitanti con quelli della grande storia delle trasformazioni urbanistiche della città di Napoli.
Scampia è un quartiere giovane, tanto più se paragonato ai quartieri antichi del centro di Napoli, in cui vivono oltre 60.000 persone. La sua urbanizzazione inizia a partire dagli anni ’70 quando, da
borgo a vocazione agricola, da campagna, diventa un quartiere ad alta densità abitativa, con un boom di espansione edilizia che rientra nella 8° Municipalità dell’area nord di Napoli. È il quartiere in cui, contemporaneamente ai napoletani del centro storico, arrivano anche alcuni gruppi di rom da quella che ancora era la Jugoslavia. Negli anni ’90, con le guerre dei Balcani, il flusso di popolazione rom che fugge dalla pulizia etnica e dallo smembramento di uno stato che aveva consolidato un modello multiculturale e tra le più riuscite delle convivenze, espressione di civiltà e umanità, aumenta e si distribuisce in tutta l’Italia. A Scampia si rinforza una comunità già esistente che vive negli spazi rurali residui al confine con la provincia, e che vivrà da allora e fino a oggi sempre nei campi, alcuni non autorizzati, alcuni comunali.
Le baracche dei campi informali, al confine del quartiere, sorgono come costellazioni in una zona ancora semi rurale, seguendo la linea dell’asse mediano che le sovrasta, sfidano le pianificazioni delle città metropolitane e ricreano, o hanno ricreato per un certo periodo e per quanto possibile, una idea abitativa comunitaria, con cortili centrali e spazi condivisi soprattutto dagli abitanti più piccoli delle comunità, che rappresentano almeno la metà della popolazione rom.
Questa concezione dell’abitare, con una estrema cura delle relazioni umane e dello spazio verde e pubblico circostante – a differenza di quanto raccontano stereotipi e pregiudizi – perduta completamente nella verticalità dei mega condomini, durante le lunghe assemblee nella nostra baracca scola jungla, ci ha
sempre fatto molto riflettere e anche dubitare delle condizioni abitative delle nostre città, per le possibilità che apriva di una riprogettazione che si occupasse non solo dei bisogni collettivi, ma anche dei sogni di ciascuna e ciascuno all’interno di una relazione con le altre famiglie, al di là dei legami parentali. Ma tutto questo è sempre rimasto nell’ambito dei desideri non espressi e tantomeno mai realizzati. Nella realtà, le condizioni di vita nelle per oltre trenta anni in una zona piagata dagli sversamenti abusivi di rifiuti e senza nessun tipo di servizi e “garanzie” per il futuro, si sono rivelate usuranti per la mente e per il corpo, per intere generazioni.
Nel tempo, si sono avvicendati interventi di edilizia residenziale pubblica – tra cui quello più noto che riguarda le Vele, da alcuni anni oggetto di un nuovo piano di riqualificazione – RESTART Scampia – che passa per il loro abbattimento e trasferimento degli abitanti in nuovi alloggi residenziali.
Tuttavia, il diritto all’abitare non è garantito per tutte e tutti, come testimoniano la diffusione di case occupate e l’incapacità decennale di trovare soluzioni abitative non ghettizzanti per le comunità rom vittime di logiche emergenziali e di assenza di visioni che li contemplino come cittadini di Scampia, e di Napoli, a tutti gli effetti.
La città a cavallo dei due secoli: dalla gentrification alla “turistificazione”
Nel 1980 il terremoto che sconvolse l’Irpinia e Napoli fu uno spartiacque per le politiche abitative dopo quelle del dopoguerra. Dal centro e dell’area metropolitana i senza tetto o le fasce più popolare si distribuirono nella cintura delle periferie a cominciare da Scampia fino a quella orientale e occidentale: il processo di gentrificazione dove il cuore antico si compone di una specifica presenza di borghesia accademica e intellettuale. Le conseguenze sociali di questa ricomposizione urbana sono note tra consolidamento di interi quartieri dove si concentravano indici di disoccupazione, povertà e controllo criminale rimasta intatta fino ai giorni nostri. Le politiche dell’abitare e del diritto alla casa sono determinanti per disegnare quel tessuto sociale e urbano in cui si sviluppano disuguaglianze ed emarginazioni sociali.
Un altro terremoto – metaforico – si è abbattuto su Napoli con il turismo di massa. Un processo iniziato circa 8 anni fa, interrotto momentaneamente con la pandemia, e poi ripreso in maniera massiccia negli ultimi due anni. Il centro storico ha cambiato di nuovo pelle, questa volta per dare spazio a un vero e proprio luna park turistico-commerciale in cui vecchie botteghe diventano trattorie e decine di appartamenti sono stati trasformati in B&B.
Dalla gentrificazione si è passati alla “turistificazione” che si allarga a macchia d’olio, oltrepassando anche il perimetro del centro storico. L’area di piazza Garibaldi dove manovalanza straniera vive stipata in case che ora stanno diventando bad&breakfast provocando una seconda opera di espulsione ma non solo.
Il dibattito sui trasporti che è stato affrontato anche in questa rubrica guarda proprio ad allargare gli spazi per case vacanza, B&B e strutture ricettive per turisti. Da San Giovanni a Secondigliano si vedono già le tracce della presenza di turisti su linee metropolitane che possono accompagnarli al centro cittadino. La conseguenza fatale per tutti è l’aumento vertiginoso del mercato immobiliare. Se la crisi ha abbattuto la richiesta dei mutui nonostante il fondo di garanzia per gli under 36 per i fitti la situazione a Napoli è sempre più vicina a quella di Milano e Roma: 600 euro per una stanza, 800 per un monolocale, oltre 1000 per un bilocale.
Chi può permettersi questi costi se uno stipendio medio tra pubblico e privato (per chi ce l’ha sotto al Vesuvio) è di 1300-1400 euro? Nessuno. A inizio anno con la protesta delle tende è esplosa la questione degli studenti universitari fuorisede proprio a Roma e Milano arrivando anche nella nostra città: “diecimila sfratti esecutivi e settemila case vacanza sono due facce della stessa medaglia – scrive la rete “Set – i diritti al tempo del turismo” – e la richiesta a comune e regione è semplice: intervenire ora, subito a regolamentare e frenare la crescita vertiginosa degli affitti turistici e attuare politiche pubbliche per il diritto alla casa, senza aspettare una legge nazionale che si annuncia liberista e inadeguata”.
Di fronte a questa bolla speculativa di costi elevati si hanno davanti due strade: emigrare fuori la cintura cittadina andando a cercare una casa in periferia o nell’affollatissima area metropolitana dove vivono circa 3 milioni di persone. Una nuova ondata di residenti nelle aree a ridosso della cintura cittadina ripropone la criticità dei trasporti perché bisogna aspettare almeno 3 anni prima che sia completata la linea metropolitana verso l’area nord. Inoltre dopo quello che abbiamo assistito come processo di espulsione/ricomposizione negli anni ’80 in quartieri come Scampia o Ponticelli un’ulteriore conseguenza sarebbe quella di trovarsi in veri e propri falansteri dove si pone il problema sociale della convivenza con le comunità straniere oltre a quella rom che da tempo vive in insediamenti proprio nelle zone suburbane.
Come in tutte le crisi ci sono anche spiragli di opportunità. Il governo di questo processo può avere anche una volontà politica che favorisca un tessuto sociale e urbano per creare servizi proprio nelle periferie con il trasferimento di fasce sociali diversificate e multiculturali. Questo “terremoto” che ha fatto cambiare pelle al cuore antico di Napoli potrebbe creare una pelle nuova anche per le aree più marginali se ci sarà una visione istituzionale chiara con la partecipazione delle comunità che hanno fatto supplenza, soprattutto a Scampia.
Modelli, pratiche innovative, esempi di economia dei diritti potrebbero essere occasione di fare esattamente il contrario rispetto a 40 anni fa. Al contrario dopo la bolla speculativa potrebbe scoppiare quella sociale rendendo davvero complicata la gestione di convivenza civile in alcune zone.
Infine, il diritto all’abitare è un concetto che si può espandere anche al territorio per quanto riguarda gli spazi sociali e le piazze. Ci sono quelli abbandonati dove potrebbero essere ricostruiti i legami di un tessuto sociale debilitato dalla pandemia in poi. Il Comune è intervenuto per frenare il processo di occupazione dei tavolini in tante piazze del centro e della movida: sarà sufficiente? No se non c’è un piano di visione della città in cui è possibile avere un tetto per tutti senza la metà dello stipendio (per chi ce l’ha) e se non si crea un modello partecipativo per restituire alla cittadinanza parchi, ville, edifici e luoghi di socialità. Servono alloggi popolari e una città accogliente come una casa per non trasformare definitivamente Napoli in un luna park turistico.
Ritorno a Scampia, per i diritti
Circa dieci anni fa a Scampia nasceva il Comitato Abitare Cupa Perillo, un unicum nel panorama azionale dei comitati di lotta per il diritto alla casa, in cui rom e gagiò insieme si riunivano a discutere e a pianificare azioni di lotta e denuncia per il miglioramento delle condizioni abitative dei om e per una riqualifica complessiva di quegli spazi pubblici del quartiere.
Così scrivevamo in un manifesto/piattaforma frutto di lunghe giornate passate insieme a ragionare e a scegliere le parole con cui presentarsi alle istituzioni, ai media, alla cittadinanza, sedute in cerchio tra i campi, il Gridas, Chikù “Con la nascita del comitato l’assemblea rinsalda la sua funzione di luogo
privilegiato della riflessione/azione in un momento delicato come questo in cui la responsabilizzazione e partecipazione di tutti sono più che mai vere e proprie parole d’ordine dell’azione collettiva…È in moto un processo di partecipazione e di coinvolgimento cittadino di tutti coloro, rom e non rom che ritengono che la questione di riqualificazione di un territorio e il diritto all’abitare sia connesso con i diritti umani, i diritti civili e i diritti politici di ogni singolo individuo e di tutte le comunità presenti sui territori.”
Questa spinta collettiva utopistica – ma anche molto concreta, che è andata oltre Scampia, raggiungendo comunità rom dell’intera area metropolitana di Napoli – non è bastata per capovolgere la situazione, e il Comitato ha progressivamente allentato la presa, di pari passo con un vero e proprio abbandono istituzionale, fatto di lenti ed estenuanti passaggi, a dir poco umilianti. Oggi siamo al si salvi chi può, finché il campo non sarà svuotato forse anche all’interno di una visione e di un processo di “riqualificazione” del territorio che certamente non contempla i suoi gruppi più marginali.
Nel frattempo, poiché tutto è in vendita, anche Scampia poteva trovarsi coinvolta nel tritacarne del processo di turistificazione che sta divorando il centro città di Napoli: il cosiddetto turismo dell’orrore, con le Vele sullo sfondo di una passeggiata nelle terre di gomorra, è stato a un certo punto un rischio concreto che si stava per correre. Ma al contrario di quanto ipotizzato anche in chiave comica negli scenari grotteschi del nostro spettacolo di Arrevuoto di quest’anno “Sei mai stato a Spettropoli” in una Napoli stravolta da turisti, alienazione e fantasmi, esiste una attiva resistenza territoriale, perché esiste un tessuto cittadino collettivo creato negli anni, fatto di persone in carne e ossa, che nonostante un vissuto di privazioni, un futuro incerto, una fatica quotidiana talvolta anche insormontabile, riempie in senso culturale e vitale quei luoghi di cui si sente parte e che, come anche i ragazzi nello spettacolo raccontano nelle conclusioni, sta imparando a difendere strenuamente, con le armi della gioia, del mutualismo, dell’ostinazione.